Questa volta Kim Jong-un si è arrabbiato davvero. La faccenda dei palloni inviati dai cieli del Sud pieni di volantini di propaganda contro il suo regime firmati da rifugiati nordcoreani non gli è andata giù. Pretendere di trattare con lui e al tempo stesso tirargli certi colpi bassi è peggio di un comportamento sleale: è un'intollerabile offesa personale, un'iniziativa affidata a «una marmaglia di diffamatori» che «ha danneggiato la dignità della suprema leadership nazionale, violando gli accordi presi due anni fa e provocando una catastrofe». Così il supremo leader della Corea del Nord ha annunciato una svolta radicale nella sua politica verso Seul, che comincerà a trattare «come un nemico», e non più come un partner di negoziati (per quanto assai difficili).
La principale conseguenza pratica della decisione del nipote del «presidente eterno» Kim Il-sung sarà lo stop alle comunicazioni dirette tra le due Coree. Non solo, quindi, l'interruzione del programma di incontri bilaterali dove si discuteva di questioni militari ed economiche oltre che del sempre difficile tentativo di stabilire relazioni, se non amichevoli, almeno accettabili. Soprattutto, invece, Pyongyang intende da subito «tagliare completamente e chiudere la linea di comunicazione con il Sud» che erano gestite attraverso un Ufficio di Collegamento istituito nel 2018. E lo fa con un comunicato ufficiale che reca, tra le altre, la firma di quella Kim Yo-jong, sorella del Leader supremo, che durante la recente lunga assenza del fratello era stata addirittura indicata come possibile sua succeditrice. Un comunicato nel quale si sprecano frasi melodrammatiche come «non baratteremo mai la dignità della nostra leadership suprema per qualsiasi cosa, ma la difenderemo a costo delle nostre vite».
Sarà davvero così? Meglio non farsi troppo impressionare dalla retorica incandescente del regime dinastico rosso nordcoreano. Pyongyang ci ha abituato a questi repentini e perentori giri di valzer: essi fanno parte in realtà del peculiare gioco diplomatico che consente (insieme con lo spregiudicato conseguimento di un minaccioso arsenale nucleare) la sopravvivenza di un regime che campa letteralmente sui ricatti internazionali, e a Seul sono ormai allenati a reagirvi. A Sud del 38° parallelo dove corre il militarizzatissimo confine intercoreano non hanno fatto una piega: l'ufficio del presidente Moon Jae-in ha scelto di non commentare e il fatto che non sia stato nemmeno convocato il Consiglio di sicurezza nazionale la dice lunga. Solo il ministero dell'Unificazione ha espresso la linea di Seul: «Continueremo a lavorare per la pace e la prosperità».
Neanche i due grandi protettori del Nord e del Sud la Cina e gli Stati Uniti sembrano allarmati: Pechino invita alla prosecuzione del dialogo, mentre Donald Trump, in passato molto attivo anche sul piano personale nei confronti di Kim, non ha per ora fiatato. Tra Covid dilagante, disordini di piazza e pessimi sondaggi elettorali ha altro a cui pensare, probabilmente.
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