Nel nord del Kosovo è tornata a salire la tensione dopo l'uccisione la notte scorsa di un poliziotto locale vittima di uno scontro a fuoco con un gruppo di uomini armati e appoggiati da mezzi blindati. Un'esplosione di tensione che annulla tutti gli sforzi negoziali e di mediazione, l'ultimo dei quali è stato l'ennesimo fallimento del nuovo faccia a faccia di dieci giorni fa tra il presidente serbo Aleksandar Vucic e il premier kosovaro Albin Kurti. Nella violenta sparatoria della notte avvenuta nel villaggio di Banjska, non lontano da Leposavic, uno dei quattro maggiori Comuni del nord a maggioranza serba, altri due agenti kosovari sono rimasti feriti. La pattuglia era intervenuta dopo una segnalazione su un blocco stradale attuato da due camion su un ponte a Banjska. Sparatorie e scontri a fuoco sono continuati per molte ore, con 30 assalitori che si sono diretti verso un vicino monastero serbo ortodosso, suscitando caos e paura fra il personale religioso e un gruppo di fedeli serbi in visita al monastero. Secondo la polizia, negli scontri sono rimasti uccisi tre aggressori, mentre uno di essi è stato arrestato. Catturate anche altre quattro persone sospette trovate in possesso di apparecchiature per comunicazioni radio e ritenute in contatto con il gruppo di aggressori armati entrato in azione nel nord. Non hanno trovato conferma le notizie diffuse in giornata secondo cui sarebbero stati otto gli aggressori uccisi. Immediata la reazione di condanna della dirigenza di Pristina, con il premier Albin Kurti e la presidente Vjosa Osmani che non hanno esitato a puntare il dito contro Belgrado, parlando di azioni pianificate di bande criminali serbe attive nel nord del Kosovo con l'obiettivo di destabilizzare la situazione. Kurti ha stigmatizzato «l'attacco terroristico» da parte di «professionisti del crimine, mascherati e pesantemente armati».
Analoga condanna da parte della presidente Osmani che ha parlato apertamente di «aggressione della Serbia nei confronti del Kosovo», sollecitando il sostegno degli alleati occidentali negli sforzi di Pristina per «imporre legge e ordine e preservare la sovranità del Kosovo». Secondo Kurti, il gruppo di aggressori armati era formato da «almeno 30 uomini», ai quali è stato intimato di arrendersi.
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