Milano Alle 10.25 di ieri il portone blindato di San Vittore si apre e ne sbuca lei: Cecilia Marogna, la giovane donna che da un mese incarna, per i suoi rapporti con il cardinale Angelo Becciu, il lato più intrigante della spy story in salsa vaticana, e che proprio su richiesta del Vaticano è stata chiusa in cella per diciassette giorni, nel raggio femminile del carcere milanese. Ieri mattina, la Corte d'appello di Milano ha stabilito che non c'era nessun buon motivo di arrestarla, e che la Marogna può aspettare a piede libero l'esito della richiesta di estradizione presentata dalla Santa Sede: richiesta, peraltro, cui tra le righe i giudici sembrano voler chiudere la porta, quando parlano di «profili di apprezzabile sostenibilità» nelle tesi dei difensori della donna.
Intanto, la consulente dell'ex cardinale lascia la cella: è minuta, avvolta in un cappotto scuro, apparentemente fragile e provata. Sale in taxi e via. Sa che una prima battaglia è vinta, ma che lo scontro vero si giocherò sulla sua estradizione in Vaticano. Anche il suo arresto, il 13 ottobre scorso, aveva dimostrato che le autorità d'Oltre Tevere in Italia hanno amici importanti. Non s'era mai visto un cittadino italiano venire catturato in una manciata di ore su richiesta di uno Stato estero (una monarchia assoluta, oltretutto) senza alcun trattato di estradizione, e senza che venissero indicate le fonti di prova a suo carico.
E proprio sulla oscurità delle accuse mosse alla Marogna insistevano le memorie difensive che i suoi avvocati Maria Cristina Zanni e Fabio Federico avevano sottoposto alla Corte d'appello. Sono note in cui, per la prima volta, emerge formalmente il retroterra di cui il Giornale aveva parlato il 15 ottobre scorso, ovvero il ruolo della Marogna nelle trattative per la liberazione degli ostaggi italiani, e non solo, in Mali. Secondo gli stessi atti vaticani, la Marogna si sarebbe impossessata di somme affidatele «per finalità istituzionali», ovvero la «liberazione della suora colombiana»: si tratta di Gloria Cecilia Narvaez, la religiosa ormai da tre anni in mano ai rapitori, e che la Marogna aveva inserito in un «pacchetto» di ostaggi da liberare insieme a padre Pierluigi Maccalli. É la prima volta che viene confermato il ruolo «istituzionale» della donna nelle trattative con i rapitori maliani. «Questo era stato il suo incarico - scrivono i legali - e per questo aveva ricevuto gli importi, che rappresentavano il budget per lo svolgimento di tutte le sue attività di intelligence, per le spese da lei sostenute e per il suo compenso». Lavoro ben fatto, visto che Maccalli è stato poi liberato. E in una mail al segretario di Stato vaticano Parolin il 7 ottobre scorso la Marogna indica anche la genesi dell'incarico, dicendo di «avere raggiunto la risoluzione pacifica delle tre persone incarico affidatomi dal precedente generale Carta (è Luciano Carta, ex direttore dell'Aise, ndr) l'ultima decade di agosto e di avere immediatamente informato il generale Caravelli», ovvero il successore di Carta: «da parte sua non ho più ricevuto notizie».
Si ritorna, e stavolta nero su bianco, nella guerra di potere e di spie che è il vero contesto della vicenda Becciu, e di cui Cecilia Marogna è stata la prima vittima a
tempo di record: il Vaticano firma l'ordine di arresto la mattina del 13, la sera stessa la Finanza va a colpo sicuro a casa della «introvabile» Marogna e la arresta. Forse ci si aspettava che crollasse, ma non è successo.
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