«La Cina prenda atto della realtà e riconosca il risultato delle nostre libere elezioni». Il giorno dopo la vittoria di William Lai, il candidato della continuità sovranista taiwanese che Xi Jinping aveva tentato in ogni modo di far perdere, il messaggio che Taipei invia a Pechino è assolutamente chiaro: non ci interessa la vostra propaganda secondo cui saremmo una provincia cinese ribelle, noi siamo un Paese libero e democratico, e ieri abbiamo scelto di rimanerlo.
Dopo ore di silenzio dei media cinesi e qualche balbettio di esponenti governativi, la linea ufficiale della Cina comunista è stata ribadita ieri. Ed è una linea basata su una duplice menzogna: quella della necessità storica di una «riunificazione alla madrepatria» (Taiwan non è mai stata parte della Repubblica popolare cinese, quindi semmai si dovrebbe parlare di «annessione»), e quella di una presunta volontà dei taiwanesi di accettare di buon grado tale «riunificazione», che gli elettori hanno invece appena liberamente respinto. La sfacciataggine del regime di Pechino è tipica di un sistema politico dove qualsiasi forma di opposizione al potere assoluto del partito comunista è vietata per legge: secondo loro, siccome Lai non ha raggiunto il 50% dei voti, allora significa che la maggioranza dei taiwanesi vuole consegnarsi alla Cina rossa e fare la fine di Hong Kong, dove gli oppositori sono in galera, nelle scuole si fa ormai propaganda «patriottica» come nella Russia di Vladimir Putin e i media indipendenti sono stati chiusi a forza.
La televisione di Stato cinese ha pressoché ignorato le elezioni che hanno confermato alla presidenza per la terza volta consecutiva un rappresentante del partito che sostiene l'indipendenza di fatto dell'isola: la stringata versione ufficiale afferma che «nelle elezioni regionali di Taiwan ha prevalso William Lai», a rimarcare che in una regione ribelle della Cina si sono tenute elezioni tacciate di sostanziale illegalità.
Al momento, comunque, nonostante la vittoria di un candidato definito da Pechino «portatore di guai», i toni non sono particolarmente accesi. Ma potrebbero diventarlo nei prossimi giorni, quando dovrebbe giungere a Taipei un'annunciata delegazione «non ufficiale» degli Stati Uniti, e ora che Lai ha voluto ringraziare il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, «per i comolimenti ricevuti per la vittoria».
Siccome la clausola dirimente del riconoscimento reciproco tra Stati Uniti e Cina è che Taiwan non può godere dello stesso riconoscimento, Xi ha sempre reagito rabbiosamente ogni volta che Washington ha mostrato di concederne in qualsiasi forma alle istituzioni taiwanesi. Quando nell'estate '22 la allora speaker della Camera Usa Nancy Pelosi aveva fatto un breve scalo a Taipei incontrando la presidente Tsai Ing-wen, la reazione cinese fu un assedio militare dell'isola, con stormi di aerei e decine di navi da guerra. Stavolta, il presidente Joe Biden ha messo in chiaro che «gli Stati Uniti non sostengono l'indipendenza di Taiwan», ma è certo che l'invio di una delegazione americana composta prudentemente di esponenti politici in pensione basterà a far infuriare di nuovo la leadership cinese.
Del resto, quando il prossimo 20 maggio Lai si insedierà alla presidenza, la sua vice sarà
Hsiao Bi-khim, una taiwanese nata in Giappone e vissuta in America, che con la Cina non c'entra proprio nulla ed è stata ambasciatrice non ufficiale di Taipei a Washington: per il presidente Xi, peggio di un calcio nei denti.
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