L'Antimafia non serve più, intanto ha ucciso il diritto

L'apparato che tutta Europa invidia (e non adotta) è diventato un "mostro giudiziario" fuori controllo

L'Antimafia non serve più, intanto ha ucciso il diritto

Finirà in niente, diranno che il Parlamento si limitò a recepire una direttiva di Bruxelles (2018/843) e che il governo si limitò a trasformarla nel Decreto legislativo sull'antiriciclaggio (n.90) con l'applauso dei Cinque Stelle del Partito Democratico: da qui l'articolo 1 che dà la possibilità al Dipartimento nazionale antimafia (Dna, via Giulia, Roma) di chiedere e ricevere informative da Bankitalia e da altre banche dati: questo su qualsiasi cittadino italiano, non importa se sia indagato o no, perché l'Antimafia si muove a prescindere sulla base delle «misure di prevenzione» che esistono solo in Italia. È così dal 19 giugno 2018, quando prese forma quando il potere del Gruppo Sos retto sino a pochi mesi fa dal luogotenente della Finanza Pasquale Striano, ora indagato a Perugia. È da quel giorno che la Dna «in forma preventiva» ha assunto una serie di prerogative tra le quali essere il terminale di segnalazioni di ogni operazione che ritenga: 155mila nel 2022 con 800 accessi abusivi certi, una centralizzazione che monìtora tutti i politici e che il guardasigilli Alfonso Bonafede (Governo Conte) difese e confermò per com'era: un mostro con competenza illimitata. Se ne accorsero le procure di Milano, Roma e Napoli secondo le quali la Dna esulava dai propri limiti, ma nulla accadde, tranne che le fughe di notizie si fecero regola, e certi giornalisti rincorsero «notizie» come i cani con gli ossi gettati loro. Uscì di tutto, soprattutto su personale di centrodestra, ma anche sulla compagna di Giuseppe Conte e sul fidanzato di Rocco Casalino. Una sconcezza.

La Dia doveva essere un «organismo servente» (funzione immaginata da Giovanni Falcone nel suo discorso al Csm del 24 febbraio 1993, osteggiatissimo a sinistra) ma la Superprocura divenne un luogo di transito per magistrati in attesa di accedere a un incarico direttivo (in qualche procura, se le correnti avessero collaborato) o addirittura aspettando uno scranno da parlamentare del Pd, come fu per gli ultimi tre procuratori nazionali. Il discorso non valse per Pierluigi Vigna (1997-2005) ma in seguito, dopo la mancata nomina di Gian Carlo Caselli, cominciò la politicizzazione: a partire dall'ottimo Pietro Grasso, che diverrà presidente dopo un passaggio da senatore del Pd. Lo stesso varrà per Franco Roberti, eurodeputato del Pd nel 2019. Intanto le procure tendevano a trasformarsi in granducati autonomi, per buona pace della «colleganza» auspicata da Falcone, mentre la Superprocura, e tutta l'Antimafia, presero i contorni del mostro che è oggi. Passaggio chiave ne fu la Legge Orlando, che nel settembre 2017 tese a equiparare i corrotti ai mafiosi e fece largo a un «Codice antimafia» senza che esistesse neppure più la mafia propriamente detta, ma solo una criminalità simile o meno pericolosa di quella presente in tanti altri paesi. Restava l'Antimafia, un sistema burocratico e giudiziario cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito, un'eterna emergenzialità che spazzava via le garanzie e la presunzione d'innocenza, con sequestri e confische «preventive» che rovinavano un'infinità di cittadini (e sindaci) perché figuravano estese anche a reati come il semplice peculato mentre furoreggiava anche una versione estesa del «trojan», un virus informatico in grado di intercettare dal telefono anche password, messaggi, immagini e insomma tutto. Era questa la legislazione «che tutta l'Europa ci invidia» ma che tu guarda, nessuno (nessuno) ci ha mai copiato, nessun altro Stato ha adottato, anche se i traffici e il riciclaggio, altrove, sono peggio dei nostri.

C'è un racconto che Alessandro Barbano, ex direttore del Mattino e neo del Riformista, ha scritto nel suo libro «L'inganno» (2022) dedicato proprio agli «usi e soprusi del professionisti del bene»: era a un dibattito cui partecipava anche Federico Cafiero de Raho, ex capo della Dna e della procura di Reggio Calabria, tirato in ballo proprio in questi giorni; capitò che lui, Barbano, chiese a de Raho se non fosse preoccupato della deriva giustizialista che stava prendendo il Paese; la risposta: «Non c'è nessun allarme, poiché la garanzia per ogni cittadino è il processo, sede in cui può accertarsi l'innocenza di chiunque». Ancora Barbano: «Gli feci notare tuttavia che, se la garanzia per il cittadino diventa il processo, fuori dal processo questi è un presunto colpevole. Tutti siamo presunti colpevoli. Ma non raccolse l'obiezione, poiché il processo, abituato a viverlo da protagonista, doveva sembrargli i migliore dei mondi possibili».

La superprocura antimafia non serve più a niente: è solo il grimaldello per scardinare lo stato di diritto e mettere l'intera società sotto tutela giudiziaria. È un'emergenza fattasi istituzione, e dirlo è difficile: perché occorre resistere all'accusa di offendere chi, per combattere la mafia, sacrificò la vita.

Ma basta niente per confiscare aziende e immobili assai prima di una sentenza, basta la discrezionale «pericolosità sociale» per mandare in malora patrimoni e famiglie, basta sfogliare i giornali per apprendere di imprenditori (assolti) cui l'antimafia frattanto ha ucciso tutto. La netta sconfitta di Cosa Nostra non ha fermato questo sistema, non l'ha ridimensionato o adeguato alla realtà: c'era un sistema di potere che andava mantenuto.

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