Una bambina di allora, che oggi ha superato gli ottant'anni e qui fece l'asilo l'asilo più bello del mondo, com'è considerata la scuola d'infanzia Sant'Elia di Como, costruita nel 1937 da Giuseppe Terragni - lo ripete ogni volta: «All'epoca avevo tre-quattro anni. Mi ricordo che a casa mia, buia e fredda, era l'inverno. Qui invece era sempre primavera».
Primavera di Bellezza, edificio-capolavoro del razionalismo, estate luminosissima dell'architettura italiana del '900, l'asilo Sant'Elia, studiato in tutt'Europa, amatissimo e copiato soprattutto dagli architetti e i designer scandinavi, è un'opera d'arte unica. E modernissima. Per molti esperti è una delle dieci architetture più importanti del XX secolo. Un gioiello del «fatto in Italia». Che oggi stiamo perdendo. È chiuso, in degrado, persino mal recintato, occupato dai senzatetto, un edificio di cui non si sa cosa farne, abbandonato dalle ultime amministrazioni che si sono succedute in città e ignorato dagli stessi comaschi. Solo qualche studioso, custode della memoria di Terragni, porta avanti la battaglia per salvare l'asilo dalla decadenza. E dalla vergogna. Poche settimane fa un gruppo di architetti danesi ha scritto al Comune di Como chiedendo di poter visitare il Sant'Elia, l'asilo che hanno studiato sui manuali e le riviste. La risposta è stata che è chiuso... Ma loro verranno lo stesso, a maggio, e faranno come noi: lo vedranno attraverso i cancelli chiusi con catene e lucchetti, sul marciapiede, da qui fuori.
Visto da fuori, l'asilo Sant'Elia fa tristezza per incuria e sporcizia. Dentro si intravedono i mobili accatastati, alcuni originali. La poltrona Benita - disegnata dallo stesso Terragni - è buttata sopra la scrivania della preside e le poltroncine a sbalzo Lariana sono lì a prendere polvere. L'ala delle cucine (che anni fa volevano smantellare per fare una sala riunioni...) restituisce un inquietante effetto Cernobyl: tutto è immobilizzato nel tempo, da quando l'asilo è stato chiuso, cinque anni fa: grandi lavastoviglie, piatti, bilance, scatoloni. Fuori è peggio: i vetri sono rigati, gli infissi arrugginiti, le pareti scrostate. Ecco com'è.
Ed ecco com'era. Ce lo raccontano due comaschi, sacerdoti del culto di Terragni: Roberta Lietti e l'architetto Paolo Brambilla, che abita qui di fronte, e ogni mattina si specchia nell'oltraggio a Terragni. L'asilo fu progettato nel 1935 e realizzato nel '36-37, gli stessi anni della Casa del Fascio, dieci minuti d'auto da qui, meno di due chilometri. La costruzione veniva incontro alle esigenze delle famiglie che cominciavano in quel momento a trasferirsi nel nuovo quartiere operaio Sant'Elia che stava nascendo nella zona, all'epoca piena periferia. E Terragni, che conosce la città e che nella sua biblioteca tiene i libri di Rudolf Steiner e di Maria Montessori, fa qualcosa di nuovissimo. Pone l'asilo al centro del rione (una scelta etica oltre che architettonica) e lo mette di traverso, incuneato nell'angolo fra via dei Mille e via Andrea Alciato per sfruttare al meglio lo spazio. Lo fa tutto bianco, su un piano solo, mille metri quadrati, leggerissimo e trasparente, le enormi pareti a vetri, il fuori e il dentro uniti grazie alle pareti scorrevoli che si aprono e si chiudono, allargando aule e spazi comuni. Ogni elemento, d'architettura o d'arredo, è curato nei dettagli per regalare ai bambini libertà, aria, luce, spazio. Terragni non costruisce un «luogo di custodia» ma, come scrive nella relazione di progetto, «una Casa per una grande famiglia».
Le famiglie di Como ormai hanno smesso di portare i loro figli. E la Casa è chiusa. Chi amministra Como uno dei luoghi più importanti per la storia del Movimento moderno, la capitale del Razionalismo non è in grado di gestire un bene architettonico formidabile, che potrebbe attrarre studiosi e visitatori da tutto il mondo. «Gli ultimi lavori di manutenzione sono stati condotti senza rispetto per l'importanza dell'opera, compromettendone l'integrità e provocando danni», spiega l'architetto Paolo Brambilla. Mentre Roberta Lietti racconta il calvario dell'opera di Terragni. Inaugurata nel 1937, già negli anni '60 è inagibile e subisce alcuni interventi che rischiano di snaturare la struttura, tanto che nel '68 tre architetti svizzeri scrivono una lettera a Bruno Zevi denunciando la cattiva qualità dei lavori di manutenzione. Zevi interviene ma il Comune, proprietario dell'edificio, risponde che è tutto a norma e prosegue nel restauro, quando si perdono anche alcuni mobili originali. All'inaugurazione, richiesto di un giudizio, Zevi risponde tranchant: «Sarebbe stato meglio demolirlo». Negli anni '80 i due nipoti di Terragni - Emilio, architetto, e Carlo, ingegnere - eseguono un restauro filologico, tornando al progetto originale. Nel 2002 la pronipote, Elisabetta Terragni, architetto, interviene con un intervento conservativo. Poi più nulla, fino a 2018, l'ultimo anno in cui l'asilo Sant'Elia accoglie nelle sue aule una classe di bambini. Dopo è una lunga serie di appelli, petizioni, articoli sulla stampa locale, risposte confuse da parte del Comune, manutenzioni pasticciate.
Ora serve un progetto preciso, ampio, che miri al perfetto ripristino dell'edificio. «Ma prima di tutto è l'idea di Roberta Lietti occorre decidere cosa fare dell'asilo. Destinarlo ancora a scuola d'infanzia significherebbe stravolgere l'opera: non si possono certo mettere i maniglioni antipanico e togliere le vetrate non a norma. L'unica via è pensarlo museo di se stesso e del Razionalismo, come Villa Savoye di Le Corbusier a Poissy».
Ma per farlo bisogna trovare i soldi (un ricco imprenditore comasco che voglia passare alla Storia non c'è?). E poi magari affidarlo al Politecnico di Milano che da tempo sta monitorando l'asilo.
Perderlo, sarebbe uno sfregio alla storia dell'arte, ma anche alla memoria di tutti i bimbi che da qui sono passati, e non lo hanno dimenticato. Come un'anziana signora, che qui dentro visse la sua infanzia, e che quando ricorda la sua carriera scolastica dice sempre che «Prima ho fatto tre anni di Architettura. Poi le elementari, le medie, il liceo...».
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