N on basta certificare in modo generico l'assenza di guerre e conflitti nel Paese da cui proviene per dire no a un richiedente asilo. Una nuova sentenza della Cassazione allarga le maglie dell'accoglienza e dei criteri con cui concedere l'asilo ai migranti che arrivano in Italia. Se il ministro dell'Interno Matteo Salvini chiude, è la giurisprudenza che apre.
I giudici della suprema corte hanno stabilito, sul caso di un ricorso presentato da un cittadino pakistano che si è visto rifiutare la domanda, che per negare l'asilo a un richiedente bisognerà prima provare che effettivamente tornando nel suo Paese il migrante non rischi la vita. Ma non più sulla base di generiche «fonti internazionali» che attestino l'assenza di conflitti nel suo Paese. Servono elementi certi, la prova che lo straniero non corra alcun tipo di pericolo facendo ritorno in patria.
A pochi giorni da un'altra pronuncia della stessa Corte che ha ricordato come questo principio vada applicato anche ai migranti che si dichiarino omosessuali e che per tale ragione corrano dei rischi nel loro Stato natale, ecco che ora i magistrati fissano un ulteriore paletto di garanzia per tutti i richiedenti asilo. Un paletto che di fatto inverte l'onere della prova. Sono i magistrati che devono certificare e provare effettivamente che per il richiedente asilo non sussista alcun tipo di pericolo nel fare ritorno nel suo Paese. In caso contrario va sempre concessa la protezione internazionale. Se non l'asilo, certamente quella sussidiaria.
Quello della Cassazione è un monito. Scrivono i magistrati: il giudice ha il «potere-dovere» di accertare «se, e in quali limiti, nel Paese di origine dell'istante si registrino fenomeni di violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, che espongano i civili a minaccia grave o individuale alla vita o alla persona». Non solo. Le toghe che decidono del destino dei richiedenti asilo devono evitare «formule stereotipate» e «specificare sulla scorta di quali fonti» abbiano reperito «informazioni aggiornate sul Paese di origine». Insomma, per stabilire se esista o meno una situazione di conflitto non basta informarsi in modo generico. Bisogna indagare in modo approfondito e puntiglioso le condizioni di ogni singolo Paese.
È stato accolto così il ricorso di un pakistano al quale la Commissione territoriale di Lecce, e anche il tribunale, nel 2017, avevano negato di rimanere nel nostro Paese con la protezione internazionale. Il legale ha impugnato il rifiuto sostenendo che la decisione era stata presa «in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Pakistan, senza considerazione completa delle prove disponibili» e senza che il giudice avesse usato il suo potere di indagine. La Cassazione ha dato ragione al pakistano ordinando al tribunale di Lecce di riesaminare il caso.
Tribunale che, scrivono gli alti giudici nella loro ordinanza, «si è limitato ad apodittiche considerazioni» citando genericamente «fonti internazionali», mentre il «dovere di cooperazione gli impone di accertare la situazione reale del paese di provenienza mediante l'esercizio di poteri-doveri officiosi d'indagine e di acquisizione documentale» in modo che «ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente».
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