Lavoriamo il 20% in più Ma Francia e Germania hanno stipendi maggiori

Il gap dell'Italia si allarga e non è tutta colpa delle tasse: poca innovazione e produttività

Lavoriamo il 20% in più Ma Francia e Germania hanno stipendi maggiori

Lavorare di più per guadagnare di meno. È questo il risultato impietoso del confronto tra le retribuzioni orarie nette italiane del 2015 e quelle degli altri Paesi di Eurolandia, Germania in primis. In Italia, infatti, l'anno scorso ogni occupato ha guadagnato in media 10,77 dollari (9,6 euro circa) all'ora a fronte dei 16,64 dollari di un omologo tedesco. Incrociando i dati dell'Ocse e di Eurostat emerge anche un altro paradosso: in Italia si lavora mediamente di più rispetto al resto di Eurolandia: 1.725 ore l'anno scorso rispetto alle 1.371 della Germania, le 1.419 dell'Olanda e le 1.482 della Francia.

Questi dati ci consentono di compiere un ulteriore passo avanti rispetto alle elaborazioni statistiche presentate venerdì scorso dal Giornale perché ci dicono non solo che il livello delle retribuzioni è basso se comparato a quelli dei concorrenti della nostra stessa area monetaria, ma che è il valore stesso del lavoro a essere stato in qualche misura deprezzato. Non potrebbe spiegarsi altrimenti l'impietoso confronto con i tedeschi. Passi anche guadagnare un terzo circa rispetto a un lussemburghese o la metà di un irlandese. Idem per un olandese (+150% circa). Si tratta di economie più piccole e nelle quali il peso dei servizi finanziari si riverbera sui dati aggregati.

Se, però, si osservano Paesi industriali come il nostro, la realtà non è poi molto dissimile. Detto dei tedeschi che guadagnano il 50% in più, va sottolineato che francesi e belgi hanno retribuzioni medie orarie superiori del 40%, mentre gli spagnoli sono a un più 20% circa. Gli sloveni guadagnano meno, ma lavorano anche un po' meno (1.676 ore).

Non è esclusivamente una questione di tasse. Queste ultime fanno sì che le retribuzioni nette spagnole siano più elevate di quelle italiane. Ma Francia e Germania hanno, ad esempio, una pressione fiscale media più invasiva nei confronti dei lavoratori. Occorre, perciò, pensare anche ad altri elementi che possono contraddistinguere negativamente l'Italia. Sgomberiamo il campo dal primo responsabile: l'euro, con il suo sistema di cambio fisso, ha una rivalutazione inferiore a quella che sarebbe determinata dalle varie bilance commerciali. La produttività tedesca ne ha beneficiato oltremodo. Ma gli altri Paesi europei che ne sono stati penalizzati non hanno sofferto la stessa dinamica italiana.

Se guardiamo gli indici di produttività del lavoro, basandoci sugli ultimi dati Istat sul Pil 2015, osserviamo che il valore aggiunto per dipendente è diminuito nel periodo 2010-2015 anche a fronte di un modesto incremento della produttività oraria. Di conseguenza il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato anche quando i processi produttivi guadagnavano un minimo di efficienza. Il trend è proseguito anche nel 2014 e nel 2015, primi due anni del governo Renzi. Cambiare la dinamica magari sarebbe stato impossibile ma non c'è stata nemmeno una piccola svolta.

Questa situazione non può non comportare una revisione della politica economica. Questi numeri, infatti, da una parte evidenziano che la produzione italiana ha bisogno di molte ore di lavoro (e dunque sconta un ritardo tecnologico) e, dall'altra parte, che ci sono lavoratori che producono pochissimo. Non si tratta solo di statali, ma anche di operai che rimangono al loro posto perché licenziandoli la stessa pmi che li impiega sarebbe costretta a chiudere.

Francia, Spagna, Germania e anche la Slovenia hanno registrato nel 2010-2015 tassi di crescita del valore aggiunto per addetto superiori al 4,5%, mentre l'Italia si è piantata. Senza che nessuno finora abbia posto rimedio.

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