«Non ha più il potere di una volta ma, quando parla lui, tutti zitti e mosca». Lui è Massimo D'Alema, che ha appena annunciato l'intenzione di rientrare nel Pd, mentre quelli che tacciono in religioso silenzio sono alcuni tra i parlamentari Dem. La voce arriva dal Nazareno e, più nello specifico, dall'ala zingarettiana: il leader Maximo non ha più la facoltà di fare il bello ed il cattivo tempo ma conserva un certo tasso di potere attrattivo, in specie tra i più giovani. Il che, com'è ovvio di questi tempi, può giocare un ruolo pure in funzione del Quirinale. Il «Dalemone», a questo giro, può significare di nuovo franchi tiratori. Tra le fila del Pd c'è chi assicura che siano almeno una quarantina i parlamentari disposti ad assecondare l'ennesimo piano cervellotico dell'ex premier: «Dipende dalle opzioni», fanno presente dall'ala centrista dei Dem. «Potrebbero addirittura arrivare a sessanta», incalzano.
Certo è che i precedenti non giocano in favore del buon umore del segretario Enrico Letta: se è vero, come ha ricordato Matteo Renzi, che tutti i candidati al Colle passati per la benedizione di D'Alema sono stati «impallinati», è vero pure che ad «impallinare» Romano Prodi nell'aprile del 2013, con l'operazione dei 101, è stato anche, se non sopratutto, l'ex leader Maximo. Circola soprattutto un nome come sponda: quello del vicesegretario Giuseppe Provenzano. «L'ex ministro deve di più ad Orlando, però è noto come i vari staff siano composti da dalemiani. I due si parlano eccome», annota la fonte zingarettiana.
La corrente dei giovani non vede l'ora di contarsi tramite il congresso nazionale ed il giro di boa per il Colle può rappresentare una prova generale. Il senatore Salvatore Margiotta non ci gira troppo attorno e prova a smorzare la questione: «Al Senato pochi - esordisce, riferendosi ai dalemiani - ed eventuali franchi tiratori non sarebbero addebitabili a lui». Infatti la partita si gioca per lo più tra gli eletti della Camera, dove appunto risiedono gli esordienti. Margiotta aggiunge: «Esistono persone che lo stimano ma con nessuno ha o ha avuto un rapporto politico stretto». In realtà, la storia dei «miglioristi» del Pd, a partire dal congresso Renzi-Cuperlo, è tutta segnata dal rapporto D'Alema-Orlando. Qualcosa che risulta difficile da destrutturare. Fonti vicine alla Fondazione Italianieuropei, del resto, confermano al Giornale l'esistenza di un dialogo che non si è mai interrotto. È proprio agli uomini vicini al ministro del Lavoro che ci si riferisce quando, quasi sottacendo, dal Pd arrivano a parlare di «coperta corta» attorno a Mario Draghi. Se Letta dovesse provare a blindare l'intesa con i riformisti - leggasi pure Base riformista - sull'elezione dell'attuale premier al Colle, l'ala sinistra del partito, magari manovrata da D'Alema, potrebbe portare in dote qualche sorpresa. Per essere precisi: tra una quarantina ed una sessantina di sorprese. Anche perché una parte del Pd nicchia: «Non sono interessato a misurare il peso di D'Alema nel Pd - dice il senatore Dario Stefano - quanto semmai a capire se il Pd si sia liberato da quel condizionamento che ha sempre scelto di privilegiare la Ditta piuttosto che un campo largo, progressista e riformista».
L'ex premier post-comunista eviterebbe volentieri il trasloco di Mario Draghi, che è un atlantista di ferro.
L'ex segretario dei Ds è invece un filo-cinese. Quale occasione migliore per fare un favore al «Dragone» se non quella di organizzare un «Dalemone» per ridimensionare le velleità quirinalizie dell'attuale Pdc? Un bel combinato disposto, come usano dire i giuristi.
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