C'è un grande problema in Italia: non si va più a votare. Inutile rammentare i numeri deprimenti delle ultime regionali o prodursi in raffronti con gli anni d'oro della partecipazione popolare. Prendiamo atto che gli elettori - di ogni ceto, orientamento e area geografica - non sono più interessati a scegliersi i propri rappresentanti, dal Parlamento ai Comuni più piccoli. Si convive con rappresentanti istituzionali insediati da una minoranza degnatasi di presentarsi al proprio seggio con certificato elettorale e documento di identità.
Nell'epoca dell'informazione globale, chiunque ha modo di conoscere il viso e ascoltare la voce di chi si occupa della cosa pubblica. Magari sarà per questo che si sta lontani dalle urne, è una delle tante battute che circolano. Però diventa preoccupante il cortocircuito che scaturisce sui social tra accesi dibattiti e fiumi di insulti agli inquilini di Palazzo. Interessa sì affermare la propria visione in un'arena virtuale, ma non concretizzarla con un gesto antico ma sempre nobile: sbarrare un simbolo e scrivere un nome sulla scheda.
Forse l'accesso sconfinato al dibattito generale - per decenni riservato agli addetti ai lavori - ha creato una sorta di effetto saturazione. Basta qualche post digitato al telefonino per sentirsi un soggetto politico autonomo che ormai si è già espresso senza farsi intruppare dalle scadenze democratiche.
La deriva dell'astensionismo apre scenari inquietanti. Un'affluenza sempre più vicina a 0 che a 50 creerà inevitabili ripercussioni sulla percezione della legittimazione degli eletti.
Allo stesso modo prefigurare un futuro dove si vota con un clic telematico, benché sotto l'egida dello Stato, rappresenta lo svilimento dell'esercizio del diritto personale che più di tutti certifica lo status di uomini e donne liberi. Meglio tornare in cabina.
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