"L'emozione a Palazzo? Non è debolezza ma rifiutare maschere"

Il sociologo spiega il clima di commozione: "È il sentimento di chi è partito da lontano"

"L'emozione a Palazzo? Non è debolezza ma rifiutare maschere"

Una neo premier che sale le scale per incontrare il presidente del Consiglio uscente per il passaggio di consegne. I fotografi, i flash. Lei che commossa si lascia andare a quel commento: «Una cosa impattante emotivamente». Fa riferimento al picchetto d'onore che l'ha accolta nel cortile di palazzo Chigi, i giornalisti non si lasciano sfuggire quell'istante di incertezza, ancora prima, durante il giuramento la voce di Giorgia Meloni accenna un leggero tremolio.

Eccolo lo sdoganamento delle emozioni, entrate di diritto fino ai piani più alti del potere. È come una maschera che cade. «Perchè è chiaro che oggi i tempi sono cambiati e le istituzioni sono percepite meno lontane, meno rigide di come erano avvertite un tempo», spiega il sociologo Mauro Magatti, che decodifica il tempo storico in cui viviamo, e ci spiega come hanno fatto le emozioni a prendersi la scena e a rivendicarla perfino, liquidando forse per sempre la rigidità che del sentimento è l'esatto contrario.

Professor Magatti, qualcuno farà insinuazioni. Quanto pesa l'emozione con il fatto che sia una donna?

«Non farei un discorso di genere. È chiaro piuttosto che in lei molto abbia inciso la sua vicenda umana personale. Politicamente non ci sono dubbi, il suo è stato un lungo percorso, partito dal basso e che l'ha portata ad arrivare fin qui, diventando la prima premier donna in Italia, e per di più giovane. Dietro resta la sua storia, una scalata vertiginosa dei vertici, un padre ingombrante e una famiglia di umili origini. Oggi il suo successo è parte di questa rivincita».

Un tempo un politico non avrebbe mai tradito alcuna emozione. Cosa è successo nel frattempo?

«La politica, come altre istituzioni, penso ad esempio a quella ecclesiastica, si sono trasformate. Le emozioni erano represse, spesso sinonimo di debolezza. Oggi invece viviamo in un contesto dove l'emozione è anche sinonimo di umanità, di empatia».

È dunque caduto un tabù?

«Indubbiamente ci sono due processi che convergono: da un lato c'è sicuramente un effetto positivo, di avvicinamento. Non si nasconde il lato più umano, si mostra anche l'aspetto più fragile che un tempo si tendeva a tenere nascosto, a certi livelli perfino a negarlo. Un atteggiamento che serviva a tenere una certa distanza, tra l'uomo comune e le istituzioni. E dall'altro lato infatti si produce un indebolimento. Due processi insomma che convergono, i due lati della medaglia».

L'effetto più temibile di tanta emotività?

«Saper reggere l'onda è la sfida più grande. Il consenso veloce, espressione di un dato emotivo è difficile da mantenere nel tempo. Lo abbiamo visto con il gradimento dei leader. Possono passare dall'essere osannati all'essere odiati in brevissimo tempo».

Quanto ha influito quello che abbiamo vissuto?

«Il covid e lo scoppio della guerra in Ucraina sono stati due accadimenti storici ricchi di risvolti. La parte di noi più razionale è in difficoltà. E anche nella sfera pubblica le emozioni tendono ad avere un ruolo preponderante. La società è sempre meno disponibile a seguire discorsi complicati, oggi tutto è opinione ed è in questo meccanismo che l'emozione acquista un ruolo più grande, ovviamente con dei risvolti complessi. Lo vediamo sempre di più ad esempio nelle campagne elettorali che sono diventate sempre più emotive».

Chi sono stati i politici che per primi hanno aperto a questo modo di comunicare?

«Il primo è stato il presidente americano Kennedy. Lui è stato un precursore, poi c'è stato Ronald Reagan, fino ad arrivare a Donald Trump, il più capace di cavalcare l'onda dell'emotività del Paese».

E in Italia?

«Silvio Berlusconi ha spostato l'asse su dinamiche emotive inesplorate. Ha incarnato un immaginario nuovo, quando è sceso in campo sono entrate in uso parole come successo, ricchezza che prima in politica non erano così utilizzate».

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