Esistono tanti tipi di eredità. Il lascito che una madre o un padre possono tramandare ai figli, al di là dei «beni materiali», che contano fino ad un certo punto, è solo uno e risponde ad una sola parola: conoscenza. L'eredità di mio papà, Ambrogio Fogar, partito altrove quasi vent'anni fa, la tengo tra le mani da poco più di un mese. La apro e la chiudo, la sfoglio e la leggo, ne parlo alla gente, ai colleghi, al pubblico in tv. La condivido rilasciando interviste ai colleghi, o attraverso qualche manciata di lettere, che diventano una storia, come questa qui, che state leggendo. Pesa meno di un pacco di pasta e nutre molto di più.
È un libro e si chiama «400 giorni intorno al mondo», ripubblicato da Tea Libri: editore che non si è stupito affatto e ha scavalcato il mio, di stupore, nel dare una forma nuova ad un racconto antico, di mezzo secolo fa. La storia della prima «grande» impresa, che mio padre ha compiuto, riuscendo a portare a casa se stesso, dopo il giro del mondo in solitaria sulla sua barca a vela - Surprise - solcando gli oceani da est verso ovest, cioè contro il senso dominante dei venti e delle correnti. Vale a dire «in salita» come scalando una montagna in cui non è prevista discesa, scegliendo di avere il vento che ti schiaffeggia faccia e prua, piuttosto che ti spinga in poppa e di affrontare il «drago» Capo Horn, l'Everest dei velisti, per primo, preferendolo a quello più accogliente, non sempre, ma di sicuro per nome, di Buona Speranza.
Il perché Ambrogio - velista ardito, assetato di conoscenza, ma con un'esperienza nautica fresca - abbia deciso di farlo, lo ha spiegato lui stesso in una frase: «Trovarmi, ecco la mia ansia: e il mezzo che ho scelto è la solitudine sul grande mare». La sintesi che racchiude la ragione stessa di una vita, declinata al fuori pista della forma, alla costante ricerca della sostanza a cui dare la propria. Da solo, senza gli altri, a cui forse riuscire a tornare. Da solo e per gli altri. «Sentimento di religiosità cosmica», lo chiamava Einstein, ovvero la capacità di sentirsi l'universo dentro e percepire come una gabbia l'esistenza individuale, fine a se stessa, sul tracciato già scritto dal mondo, con i suoi desideri precostruiti e scopi da perseguire sotto l'egida del «così si fa». Allora si cerca e si va, o si cerca di andare, verso quel dove, tra anima e natura, sia possibile inventarne uno nuovo, di pensiero. Che diventa azione da tradurre in esperienza, poi esperienze che delineano il tuo tracciato. Non il contrario, anche se uno che fa così, di norma, viene inteso dagli altri «tutto alla rovescia». E sia: in questa accezione mio padre lo era. Ma proprio per questo ha potuto salpare dalla banchina con quattro gatti a salutarlo, le gambe che forse gli tremavano al cospetto dell'Ignoto. Per questo specifico sentimento religioso - lui che monaco non è mai stato - ha potuto incontrare il favore e la purezza del Destino, la memoria degli eroi di Verne, sognati da bambino, rivivendoli in carne ed ossa, nella realtà. È stato suo l'incontro con la balena, suoi i 402 tramonti e le altrettante albe, disegnate per uno spettatore solo, sue le lacrime che sono volate fuori coperta, salate dentro i marosi nelle tempeste e solo sue le risate pazze, per un vento insperato. Sua la conoscenza, dalla disperazione all'illuminazione, da condividere al prossimo. Così la storia di questa impresa non è solo tale, poiché è anche la storia unica di chi l'ha compiuta. Un'impresa dentro l'impresa, mi viene da dire, che dopo aver navigato mari intangibili per cinquant'anni, emerge dal mare e torna a casa, per ripartire ancora verso un nuovo approdo: tutti coloro che avranno la curiosità di leggerla.
Mostrando, concedetemi questa vanità e questo orgoglio, che quando una storia sopravvive al tempo ne fuoriesce del tutto.
Per quella storia il tempo misurato non esiste più: diventa parte della Storia, quella grande, di cui sarebbe bello avessimo sempre sete, senza restarne strozzati. Come l'eredità migliore, che ciascuno di noi può ricevere. O cercare.
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