Quelle parole estremamente dure rivolte da Giorgia Meloni a Romano Prodi sono contemporaneamente una legittima difesa, un contrattacco ma anche qualcosa di più. Si arguisce ascoltando la spiegazione che ne dà Giovanni Donzelli, uno dei principali organizzatori della kermesse di Atreju teatro della polemica con il Professore. «Nessuno poteva pensare conoscendo Giorgia - spiega - che di fronte alle critiche sgarbate del Professore restasse in silenzio, che non gli avrebbe risposto per le rime. Non le piace il ruolo del punching ball. Inoltre Prodi è un bersaglio facile, non c'è politico più impopolare. Poi naturalmente c'è la politica...».
Appunto, l'aspetto più interessante è la strategia politica che c'è dietro uno scontro che altrimenti apparterebbe ai classici delle feste di partito dove per eccitare la platea si deve individuare un nemico. Nello scegliere il Professore come bersaglio la premier ha adottato le lezioni di von Clausewitz, il generale prussiano che considerava «la guerra una continuazione della politica con altri mezzi». L'obiettivo della Meloni è semplice: evitare che il campo largo si doti di un'area moderata, di un centro alla destra del Pd. Il tema che Prodi propone un giorno sì e un altro pure alla Schlein. Quello per cui si è inventato anche l'ingresso dell'ex-direttore dell'agenzia delle entrate, Ruffini, in politica.
Di fronte ad un piano del genere che punta a creare un soggetto insidioso per il centro-destra (anche nei numeri, basta sbirciare i sondaggi) come lo furono altre invenzioni del Professore, dall'Ulivo all'Unione, la premier non può restare inerme. Così punta a dividere lo schieramento avverso e ad eliminare il nascituro. Lo scontro frontale con Matteo Renzi, convinto propugnatore del campo largo, sul divieto dei compensi all'estero per i politici (norma sempre più «ad personam» visto che ieri si teorizzava di escludere dal divieto Usa e Svizzera e non l'Arabia Saudita); ed ancora, il tentativo di coltivare Calenda e personaggi come Marattin (entrambi invitati ad Atreju) per tenerli fuori dal progetto di centro-sinistra; e infine la polemica al vetriolo con Prodi, cioè con l'immagine iconica del possibile «centro» del campo largo, sono operazioni che hanno questo stesso obiettivo.
Fanno parte di una strategia politica perché la Meloni è un leader «totus politicus», nata e cresciuta in una scuola di partito. Uno degli ultimi sulle breccia. Del resto la stessa sceneggiatura di Atreju aveva nel mirino l'idea del «centro» in politica. Bastava ascoltare le parole del nuovo profeta del liberalismo, il presidente argentino Javier Milei, ad Atreju: «Il centro è complice del socialismo» e alimenta il politicismo «che disprezzo e delle cui opinioni non ce ne importa un fico secco». Insomma, una sorta di «Afuera!» rivolto al concetto stesso di centro-moderato. Solo che immaginare di trapiantare le teorie del presidente dell'Argentina, cioè di un Paese che ha conosciuto il peronismo, Evita, i generali e quant'altro e di fatto in bancarotta in un Paese del G7 come l'Italia è un po' azzardato: è come se la Germania prendesse a modello un nuovo Mandela nato in Burkina Faso.
Si vedrà. Per ora l'obiettivo prioritario della Meloni è evitare che le diverse tribù litigiose che popolano gli spazi al di là dei confini del centro-destra si saldino. Da qui il picconamento del teorico di quell'operazione, cioè Prodi. Una mossa che non stupisce nessuno a sinistra: «È la dimostrazione - ha detto i suoi la Schlein - che la teme». È quello che pensano anche i centristi del centro-destra.
«Ce l'ha con i moderati che stanno dall'altra parte - confida il forzista Mauro D'Attis, relatore in commissione della legge di Bilancio - vedi l'attacco a Prodi e la norma contro Renzi, che a me pare una minchiata. Invece, basterebbe che lasciasse spazio a noi di Forza Italia per tamponare quel centro, invece di utilizzare Maurizio Lupi e i moderati per dividerci».
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