La lunga vigilia del Quirinale, oltre a bloccare totalmente le attività di partiti e Parlamento già incapaci da tempo di fare il proprio mestiere ed eseguire i propri compiti, produce effetti collaterali impensabili (altro che vaccini). Ad esempio, c'è il traversale «partito Omicron» che si sta alacremente organizzando attorno alla speranza che la nuova variante sia sufficientemente spaventosa e dannosa da costringere a congelare lo status quo, impedendo a Mario Draghi di candidarsi per il Colle e obbligando Sergio Mattarella ad ingoiare i tempi supplementari di permanenza al Quirinale. Oppure c'è Luigi Di Maio che improvvisamente, forse grazie all'influsso benefico del suo nuovo idolo Emmanuel Macron, si trasforma improvvisamente in padre della Repubblica e saggio statista liberale e ammonisce (Conte in primis): «L'Italia non può permettersi di perdere Mario Draghi, è interesse del paese che lui continui a guidare questa situazione. Chi sta pensando di andare a votare fa un danno al paese».
A Enrico Letta, su cui si erano incentrati molti sospetti (soprattutto nel Pd) proprio a proposito di voglia di elezioni anticipate, non resta che prendere esempio dal carismatico Gigino e giurare: «Noi non vogliamo andare a votare». Nonché, paradosso ancor più stupefacente, allinearsi all'odiato Matteo Renzi, e affermare: «Siamo dentro una situazione eccezionale, con una maggioranza eccezionalmente larga. Sarebbe contraddittorio se la maggioranza che eleggerà il prossimo presidente della Repubblica fosse più piccola di quella che sostiene il governo Draghi». Traduzione: non bisogna arrivare al secondo dei due scenari possibili: serve un accordo largo tra i leader dei diversi partiti che si impegnino a votare insieme un candidato ai primissimi scrutini. Evitando di arrivare al secondo scenario: gli schieramenti che si dividono e vanno alla conta, dal quarto scrutinio in poi, su candidati contrapposti (e l'eventualità, che spaventa assai la sinistra, che uno dei due sia Silvio Berlusconi), con il rischio di incartarsi.
Era l'avviso che Renzi, accusato dal Pd di giocare «col centrodestra», aveva mandato sabato, intervistato dal Corriere della Sera: «Al segretario Pd sfugge che al Quirinale è giusto votare un candidato tutti insieme, da Meloni ai grillini, da Salvini ai dem. Votare col centrodestra è un dovere istituzionale, e algebrico, visto che stavolta hanno i numeri dalla loro parte. Quindi anche il Pd voterà col centrodestra».
Sui nomi, in ogni caso, sia Letta che Di Maio saggiamente frenano: «Non ho mai visto un presidente eletto due mesi prima, la scelta avviene a ridosso del voto», sottolinea il segretario dem. E Di Maio: «Fino a 15 giorni prima tutti i nomi vengono fatti solo per bruciarli». E serve un'intesa ampia perché «nessuna coalizione può farcela da sola». Poi l'avvertimento a Conte: «Dice che non vuole andare al voto, e gli credo assolutamente». Ma «la strategia va fatta tutti insieme: sosterrò la linea della leadership, ma il leader deve ascoltare i parlamentari» perché «i franchi tiratori» sono in agguato ovunque, e tanto più nel M5s. Dove i «dimaiani» avvertono: «Non si può delegare la trattativa a Conte».
Dal centrosinistra parla anche Carlo Calenda, come sempre tranchant: «Il problema dell'Italia è che nessuno amministra e
implementa, e se l'unico capace di farlo lo mandiamo al Quirinale tra i corazzieri, l'idea che poi facciamo accadere le cose è totalmente utopica: non accadrà, e ci troveremo in un gigantesco casino». Più chiaro di così.
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