Lettera d'amore a un'Italia che non ama più se stessa

Esce il saggio patriottico di Marcello Veneziani Alla riscoperta della vera identità nazionale rinnegata a causa del politicamente corretto e umiliata da istituzioni troppo mediocri

Lettera d'amore a un'Italia che non ama più se stessa

Per gentile concessione dell'autore e dell'editore, pubblichiamo uno stralcio di "Lettera agli italiani. Per quelli che vogliono farla finita con questo Paese" di Marcello Veneziani (Marsilio, pagg 160; euro 16)

Ma l'Italia ha nemici? E chi sono? È vero, come voi dite, che ci facciamo del male molto bene già da soli, ma non mancano minacce globali. La nostra civiltà corre tre pericoli principali: l'aggressione del fanatismo islamico e della sua falange armata, i terroristi; l'invasione incontrollata dell'immigrazione clandestina di massa di cui si diceva; la decadenza per stanchezza, nichilismo e denatalità. Due fattori sono esogeni e uno endogeno. Ma cosa intendiamo quando parliamo di civiltà? Possiamo riferirci alla civiltà contemporanea, cioè al tenore di vita legato alla tecnica, agli usi e ai consumi, al benessere, facendo coincidere civiltà con civilizzazione; possiamo intenderla come la civiltà occidentale e identificarla con la libertà, la democrazia, il libero mercato, i diritti dell'individuo; possiamo richiamarci alla civiltà europea, ossia a quell'universo di valori, tradizioni, eredità che pur nella loro diversità sono uniti da una visione geopolitica e spirituale, una discendenza storica; possiamo riferirla alla civiltà mediterranea, greca, romana e cristiana e alle civiltà preesistenti nel bacino che fu culla della civiltà; possiamo estenderla alla civiltà cristiana, la sua concezione religiosa e i suoi derivati secolari, laici e profani; possiamo circoscriverla alla civiltà italiana, discesa dalla romanità e poi legata alla nostra tradizione nazionale, alla sua lingua e alle sue tappe salienti e possiamo infine intenderla come civiltà universale, ove civile si oppone genericamente a barbaro, violento e incivile. Sette modi diversi benché spesso intrecciati d'intendere la civiltà, ma tutti messi in pericolo dai tre fattori prima indicati.

Il punto di coesione e di raccolta per arginare e respingere gli assalti del fanatismo e del terrorismo, per governare e frenare i flussi migratori incontrollati e per superare la nostra pulsione di morte e declino, resta la difesa della civiltà.

Oltre ad attivare i dispositivi pratici e immunitari di difesa, dobbiamo anzitutto risvegliare il senso dell'identità a cui apparteniamo. L'identità è il Dna di una civiltà più l'esperienza che si è stratificata nel tempo, ciò che siamo per indole, eredità, storia e mentalità, frutto della natura e della cultura sedimentata nei secoli. L'identità non è un fattore inerte, fossilizzato, ma si accompagna a un processo che chiamiamo tradizione: ove si trasmettono e si selezionano nel corso del tempo, di generazione in generazione, conoscenze, patrimoni, esperienze di vita. L'identità è radice, la tradizione è la sua linfa.

Per affrontare il diverso, lo straniero e il nemico, tendiamo a cancellare la nostra identità, ritenendola un ostacolo e una chiusura. Coltiviamo due illusioni opposte: renderci accoglienti nei confronti dello straniero e dichiararci aperti, senza confini né tabù, tolleranti e benevoli verso chiunque venga da fuori o si situi al di fuori di quell'orizzonte identitario. Oppure l'illusione opposta: ci crediamo superiori perché loro sono legati ancora alle loro identità, alle loro chiuse superstizioni, mentre noi siamo globali, agiamo nel nome dell'umanità e dei diritti umani, da cittadini del mondo, ci esprimiamo con la tecnica e il mercato e non con le armi e le religioni.

Invece l'identità ci vuole per affrontare chi è differente da noi, chi è straniero, chi è ostile, chi ci dichiara guerra e compie azioni terroristiche. Affrontare vuol dire essere aperti sia al confronto che al conflitto. Gli incontri sono possibili tra identità diverse, non tra «nientità». Chi è fiero della propria identità mostra il suo volto senza maschere, è aperto, riconoscibile e non è disprezzato come un vigliacco infedele che si nasconde, che fugge, disposto a barattare la propria identità per la comoda sopravvivenza. Chi ama la propria identità riconosce un valore positivo alle identità e dunque è in grado di comprendere e rispettare anche quelle altrui, dello straniero e perfino del nemico. Chi dà valore all'identità non calpesta le fedi, le culture e le tradizioni altrui, non irride i simboli e i riti altrui, perché ne riconosce per sua esperienza la loro importanza. Chi ama l'identità, rispetta le identità, a partire dalla propria. Amare la propria identità non vuol dire armare l'identità e imporla agli altri; vuol dire farsi carico della propria origine e del proprio destino, non abdicare né rinnegare ma risponderne, farla valere, offrirla.

C'è un pregiudizio idiota che identifica la difesa della propria identità con il razzismo.

È piuttosto il contrario: il razzismo sorge in contesti degradati, quando le identità vacillano o sono perdute, logorate, e bisogna compensarle con un racconto ideologico e un sentimento di rivalsa. Sono le identità insicure o malvissute a favorire l'ossessione del razzismo, a contrastare e opprimere l'altrui identità nel vano progetto di esaltarne per contrasto la propria. Chi ha una salda identità non ha bisogno di riaffermarla contro qualcuno né di imporla con la forza, basta che gli sia riconosciuta e rispettata insorgendo solo quando è posta a repentaglio. E reagendo in modo adeguato: ribatte sul piano delle idee quando è attaccata sul piano delle idee e risponde con le azioni quando è aggredita con le azioni. L'identità non è una malattia che porta al razzismo, ma il razzismo è la patologia dell'identità insicura.

Il razzismo sorge dall'incertezza della propria identità e dal pregiudizio che si riafferma solo nel contrasto, stridendo con le altrui identità. Anche il fanatismo non sorge dall'identità ma dal suo collasso, è volontà di affermare un principio identitario fuori dal suo contesto, una fede fuori dal suo ambito teologico, una religione fuori dal suo ambito comunitario, come strumenti di dominazione. Le identità per i fanatici non sono culture, principi di vita e impronte spirituali ma ordigni, sentenze di morte e anatemi.

I principi che hanno perduto il loro fondamento e la loro integrità cadono in balia del fondamentalismo e dall'integralismo che li elevano ad assoluti in terra al servizio della loro volontà di potenza.Marcello Veneziani

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