Il giorno in cui ipoteca il suo ingresso glorioso a Downing Street è anche il giorno in cui esce di casa sommerso dai fischi. Non è leader da mezze misure, Boris Johnson. Lo si ama o lo si odia. E mentre gli inglesi alle urne decidono di sposare la sua linea pro-Brexit e lo incoronano indirettamente futuro possibile capo del governo, una folla di concittadini inferociti lo ricopre di buu. Perché in fondo, più di ogni altro, persino più del re degli euroscettici Nigel Farage, l'artefice della vittoria della Brexit è lui, il conservatore che ha deciso di sfidare apertamente l'amico-rivale, il primo ministro Cameron, ma soprattutto gli euroburocrati di Bruxelles.
Il fronte pro-Europa lo ha ricordato più volte in questi giorni: Boris è l'uomo che più di tutti, e soprattutto in tempi non sospetti, ha preso a picconate l'Unione Europea. Ha cominciato a farlo quando era ancora «solo» corrispondente da Bruxelles per il Daily Telegraph, negli anni Novanta, ribaltando completamente la retorica fino ad allora usata sulle istituzioni europee, sfottendo con il suo sagace sarcasmo il pallino dell'Unione di regolamentare tutto, pure la misura delle banane.
Il premier ha perso la sua più importante scommessa politica, Boris l'ha vinta. Come? Calamitando l'insofferenza degli inglesi e di una larga fetta del partito nei confronti di Bruxelles e poi, soprattutto, risvegliando l'orgoglio britannico senza necessariamente scivolare nei toni razzisti dell'Ukip di Nigel Farage (ma qualche pesante caduta di stile è toccata anche a lui, come quando ha definito l'Obama pro-Brexit un «mezzo keniano»). «Possiamo ritrovare la nostra voce nel mondo. Potente, liberale, umana, con una forza straordinaria» ha detto ieri dopo una campagna elettorale durissima. «Il popolo britannico ha parlato per la democrazia».
Spesso i toni sono stati esasperati, come quando ha paragonato il progetto europeo a quello della Germania nazista di Hitler. In realtà il nodo del suo discorso politico è sempre stato quello del ritorno alla sovranità nazionale. Basato su un concetto chiaro: «Non siamo noi a essere cambiati, ma l'Unione Europea». E la Brexit che avrebbe potuto essere la sua «tomba» politica si è rivelata la sua più abile seppur azzardata scommessa. Da quando, infatti, ha lasciato la poltrona di sindaco di Londra per buttarsi nell'avventura referendaria, Johnson è esploso nei sondaggi. Rosicchiando di giorno in giorno consensi al leader e amico di gioventù Cameron.
Ora che ha scalzato l'ex compagno di college da Downing Street esibisce il fair play di fine corsa, elogia il «conservatorismo compassionevole» introdotto dal primo ministro uscente e lo definisce «uomo coraggioso e di principio». «Il voto è stato giusto e inevitabile» ha detto.
Gli inglesi «hanno deciso di votare per riprendere il controllo». Mentre lui ora con molta probabilità prenderà la guida del governo. E chissà che non istituirà l'Independence Day che gli ha regalato la gloria e le chiavi del potere.
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