L'incognita tariffe sull'export di vino: "Potrebbero rifiutarsi di sdoganarlo"

Il legale di Withers Luca Ferrari assiste importanti produttori italiani

L'incognita tariffe sull'export di vino: "Potrebbero rifiutarsi di sdoganarlo"
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In attesa di capire se una trattativa tra le due sponde dell'Atlantico servirà a scongiurare i nuovi dazi minacciati da Donald Trump sui cosiddetti spirits europei, i produttori di vino italiani si stanno attrezzando per affrontare lo scenario peggiore.

Sul mercato americano i produttori di alcolici non possono vendere direttamente a consumatori, Gdo, bar o ristoranti. Invece, i produttori devono vendere a importatori o distributori, che vendono la merce a supermercati, wine-bar e ristoranti. Il sistema protezionistico impatta su più livelli di una catena logistica segmentata: il retail, diviso nei due canali dell'acquisto a scaffale e del cosiddetto horeca (alberghi, bar e ristoranti), il wholesale, gli importatori e i produttori. «Ciascuna componente deve proteggere i suoi margini e mette in campo le sue strategie commerciali. Chi ritiene che la minaccia di Trump non sia un bluff sta già pensando ad aumentare le scorte nei magazzini Usa prima che scattino gli eventuali dazi sulle casse spedite dall'Italia. Il vino però è un bene deperibile, lo spazio nei magazzini è limitato e la rotazione del magazzino ha un costo», spiega Luca Ferrari, partner dello studio legale Withers che tra i suoi clienti assiste anche alcuni importanti produttori vitivinicoli italiani che esportano negli Usa. Se partiranno i dazi, bisognerà discutere di quanto potranno farsi carico delle nuove tariffe gli importatori e quanto del peso verrà scaricato sul wholesale. A livello retail l'assorbimento sarà limitato, anche perché la grande distribuzione acquista just in time. «Vanno poi considerati i singoli contratti che regolano il rapporto tra il produttore di vino italiano e l'importatore Usa. Quando questi contratti prevedono già l'eventualità di nuovi dazi, tra le clausole può esserci anche la ripartizione del costo aggiuntivo. Se, però, queste condizioni non sono esplicitate, l'importatore pretende la collaborazione del produttore che poi deve valutare come adeguarsi. Si dovrebbe cercare un punto d'equilibrio partendo sempre dalla fascia di prezzo in cui si colloca il prodotto nel punto retail», aggiunge Ferrari.

«Il contratto di fornitura prevede meccanismi di adeguamento dei prezzi rispetto a fattori stagionali e congiunturali. Ma l'introduzione o l'aumento di tariffe può destabilizzare il rapporto con l'importatore che spesso, per mantenere l'esclusiva, si impegna su minimi volumi di acquisto. Questi impegni potrebbero risultare insostenibili a fronte di una domanda, lato wholesale e retail, che si contrae proprio per effetto degli aumenti di prezzo causati dai dazi. Al contrario, molti produttori medio-piccoli subiscono le condizioni contrattuali dell'importatore e firmano accordi di lungo termine in esclusiva con minimi di acquisto ben al di sotto della soglia di tutela».

Maggiore è lo sconto che fa il produttore sulla bottiglia e minore è l'impatto del dazio. Che può anche entrare in vigore quando la merce è già in mare nei container col rischio di farla arrivare con un costo aggiuntivo non previsto alla partenza. «In quel caso l'importatore può chiedere un indennizzo, magari rifiutando di ritirare e sdoganare la merce.

Il produttore dovrà trovare un accomodamento, perché se l'alternativa è una causa, e specialmente se la parte italiana si è lasciata imporre per contratto il foro americano, parliamo di costi insostenibili», è la conclusione di Ferrari.

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