L'Isis ci vuole invadere «Siamo a Sud di Roma» E decapitano 21 cristiani

I jihadisti diffondono un altro video dell'orrore. E gli scafisti armati minacciano la Guardia costiera

L'Isis ci vuole invadere «Siamo a Sud di Roma» E decapitano 21 cristiani

I decapitatori sgozzano e ci minacciano apertamente mentre l'ambasciata chiude e gli italiani fuggono dalla Libia. Nel frattempo però i trafficanti d'uomini lavorano indisturbati. E si permettono non solo di spedire verso le nostre coste un migliaio di migranti ammassati su undici barconi, ma persino d'affrontare armi alla mano le motovedette della Guardia Costiera che tentano, al termine del salvataggio, di sequestrare le imbarcazioni. L'inattesa escalation va in scena nel pomeriggio di ieri quando gli scafisti a bordo del barcone imbracciano le armi e si riprendono l'imbarcazione che tornerà così a venir usata per traghettare nuovi migranti. Migranti che Matteo Salvini lascerebbe volentieri in alto mare. «Li soccorrerei, ma - ha detto ieri il leader della Lega Nord- li terrei al largo e non li farei sbarcare. Ne abbiamo abbastanza». Ad alzare il livello delle minacce all'Italia contribuiscono anche i decapitatori dell'Isis. Ieri sera confermando le macabre promesse anticipate sul numero 7 di Dabiq - la rivista «on line» del Califfato - i terroristi hanno diffuso le immagini della decapitazione di 21 lavoratori egiziani di religione cristiano copta catturati a dicembre a Derna. Immagini precedute da un sinistro messaggio che riguarda direttamente l'Italia. «Fino ad ora ci avevate visto su una collina della Siria ora siamo a Sud di Roma» recita infatti il testo del video. La decapitazione di massa era stata preceduta una settimana fa dalla pubblicazione su Dabiq delle foto dei 21 prigionieri vestiti con le solite tute arancione. La parte più inquietante per noi sono però i nuovi riferimenti all'Italia. Quelle minacce confermano una specifica ostilità dell'Isis libico nei nostri confronti già evidenziata da alcuni rapporti della nostra intelligence. Un'ostilità non secondaria rispetto alla decisione di evacuare i connazionali e chiudere un'ambasciata rimasta l'ultimo presidio occidentale a Tripoli. Una decisione diventata inevitabile dopo l'avanzata dell'Isis a Sirte, le dichiarazioni su un possibile intervento del ministro degli esteri Paolo Gentiloni e l'affondo dello Stato Islamico che definendo «ministro crociato» lo stesso Gentiloni minacciava implicitamente tutti gli italiani. Per questo tra venerdì e sabato dipendenti Eni, imprenditori e lavoratori vengono invitati all'appuntamento con il catamarano Virtu Ferries partito da Tripoli alle 12.15 di ieri. Una partenza su cui hanno vigilato i carabinieri dell'ambasciata, la marina e un drone Predator. Contemporaneamente all'evacuazione veniva intanto annunciata la sospensione delle attività dell'ambasciata giustificandola con il rientro dei suoi funzionari e dell'ambasciatore Goffredo Buccino.

In tutto questo l'Italia fa i conti con il fantasma della nuova guerra di Libia. Una guerra contro un nemico sfuggente, ma affidata ad un piano politico strategico ancora tutto da scrivere. Anche perché se è facile per il ministro della difesa Roberta Pinotti offrire la disponibilità di 5mila soldati più difficile è capire dove mandarli, a quali alleati affiancarli e come impiegarli. Il governo Renzi sconta infatti l'indifferenza con cui ha assistito al degradarsi della situazione libica, confidando nell'utopia dei piani negoziali delegati all'inviato Onu Bernardino Leon. E così ora deve partire da zero inventandosi un'iniziativa politica capace di dar vita ad una coalizione in grado di garantire un intervento militare. Un'iniziativa molto più facile da condurre nel semestre di presidenza europea quando il governo contava almeno su un'investitura internazionale. Ora invece deve affrontare, senza titoli, la diffidenza degli alleati. Prima fra tutti quella di Washington che nel marzo 2013 ci delegò il dossier libico e l'organizzazione della conferenza del «Gruppo Amici della Libia» a Roma. Conferenza a cui il governo Renzi non diede mai seguito. E così mentre Washington perplessa per tanta apatia muove le unità del Jsoc (Comando congiunto delle operazioni speciali) sul fronte meridionale libico anche Parigi e Londra si organizzano in proprio. Le forze speciali di Parigi sono già operative sul fronte sud occidentale della frontiera libica dove si coordinano con Niger e Algeria. La Gran Bretagna invece ha appena inviato un'unità d'intelligence appoggiata da uno squadrone delle Sas al confine tunisino libico. In questo scenario, militarmente già definito, non sarà facile ottenere una risoluzione da cui far nascere un'operazione Onu adeguata alle nostre esigenze. Esigenze che non si fermano alla guerra all'Isis. Oltre a riconquistare il controllo dei pozzi petroliferi dell'Eni nel sud della Cirenaica, garantire la difesa di quello di El Feel, delle installazioni off shore nel Mediterraneo, degli impianti di Sabratha e del gasdotto Green Stream l'Italia deve anche stroncare il traffico di uomini. Un obbiettivo che richiede non solo il controllo delle coste della Libia, ma anche la capacità operativa di combattere quelle milizie «alqaidiste» che «generano» il traffico di uomini gestendo le transumanze di umani in arrivo alle frontiere meridionali del paese. Per questo senza alleanze precise sul fronte interno libico e su quello internazionale i 5000 soldati evocati della Pinotti rischiano di ritrovarsi comparse di un «risiko» inutile quanto pericoloso.

I militari del contingente che il ministro della Difesa Pinotti ha dichiarato di voler schierare in Libia

Sono oltre 2.100 i migranti soccorsi ieri nel canale di Sicilia, a circa 120 miglia a sud di Lampedusa

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