La caduta. Non quella del Duce, il 25 luglio del 1943, materia fissa di rievocazioni in questa stagione torrida del calendario, ma l'altra, cinque giorni prima e sessantanove anni dopo, di Mario Draghi. Il 20 luglio del 2022. Pagine intere sui quotidiani con la testa rivolta verso il passato, nel segno del rimpianto: le grandi manovre per il Quirinale che rompono gli equilibri, i tanti congiurati, i tentativi del premier di mettersi in contatto con Berlusconi.
In Italia i governi sono venuti giù come birilli per tutto il Dopoguerra, ma questo e solo questo merita una celebrazione che è un atto di nostalgia.
Intendiamoci: l'esecutivo di SuperMario nasce circondato da attese quasi messianiche. Del resto, lui è l'uomo del whatever It takes, una specie di salvatore delle finanze europee e un tecnico, non così legnoso come molti suoi colleghi, capace di esplorare vie nuove nell'interesse di milioni di cittadini.
Così il ritorno dei partiti viene visto, in generale, come la fine dell'età dell'oro e il ripristino di pratiche meschine se non mediocri, lottizzazioni e nomine clientelari, tutto il peggio del vecchio sistema.
In realtà, il catastrofismo di certe previsioni non si è per fortuna realizzato: molti in quelle convulsioni finali immaginano l'impazzimento della colonnina dello spread, e poi l'isolamento dell'Italia, la perdita di una sorta di rendita di posizione, una deriva sullo scivolosissimo tema della guerra in Ucraina e più in generale uno sfaldamento del network di alleanze costruite a livello internazionale.
Fin troppo facile replicare che per fortuna del nostro Paese non è andata così. I parametri «vitali» hanno tenuto, l'Italia a trazione meloniana si è schierata senza se e senza ma con Kiev, l'andamento dell'economia ha stupito gli studiosi, sia pure fra mille problemi, e Giorgia Meloni ha stabilito una solida alleanza con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen.
Anzi, per qualche settimana si è parlato di una Meloni draghiana, pronta ad andare a lezione dal maestro, generoso e per nulla permaloso, e semmai rapida nel buttare alle ortiche le posizioni più barricadere di quando stava all'opposizione e remava contro.
Poi, le dispute sul Pnrr, con corredo di ritardi e affanno, hanno finito con il creare un solco, o meglio qualche frizione, sia pure indirettamente, fra gli uni e gli altri e un rimpallo di responsabilità.
Ma sono questioni che, almeno finora, non hanno compromesso l'immagine dell'Italia, mentre lui, Mario Draghi, è sparito dai radar ed è venuto giù tutto il castello di retroscena e indiscrezioni di chi lo dava per sicuro in questa o quella carica. Di tutto quel grappolo di supposte ambizioni non è rimasto nulla. Anzi, sul tema ieri il Corriere della sera riportava una delle sue battute intinte nel calamaio dell'ironia: «Sono appena salito in aereo per andare a occupare la poltrona». Draghi non è più a Palazzo Chigi e neppure è asceso al Colle, complice anche una strategia non sempre all'altezza del personaggio.
È svanita pure l'agenda Draghi che era il mantra irrinunciabile del Pd di Enrico Letta e ora è un cimelio dimenticato nei magazzini della politica, sono rimaste invece le molte cose buone portate a compimento o impostate: la guerra al Covid che risalta ancora di più dopo l'infelice sortita di Conte su banchi a rotelle e Primule che nessuno ha mai visto; e ancora, per rimanere sulla linea dei rapporti con le altre capitali, la scelta di schierarsi con l'Ucraina e il viaggio in treno a Kiev con Macron e Scholz. Infine, la battaglia per contenere in qualche modo il prezzo del gas, salito vertiginosamente con sgomento di milioni di famiglie.
Avrebbe meritato di più, SuperMario.
Anche se tutti sapevano che era come una safety car che prima o poi avrebbe imboccato la corsia che porta ai box. Doveva sganciarsi, invece è affondato come tanti premier prima di lui.Maggioranza e opposizione hanno ripreso a sfidarsi. Un anno dopo, c'è più teatrino ma meno equivoci.
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