Fino a pochi mesi fa eravamo l'alleato perduto nelle grinfie del Dragone. Ora grazie alle artigliate di Draghi siamo il figliol prodigo tornato all'ovile. Il primo a dimostrarlo è Joe Biden pronto a ritagliarsi il tempo di un sostanzioso bilaterale con SuperMario nel corso del G7 al via domani in Cornovaglia. Un bilaterale nel quale l'Italia, squalificata dagli Usa al ruolo di nazione perduta durante i governi a Cinque Stelle di Giuseppe Conte, potrebbe venir investita di ruoli chiave in Europa e nel Mediterraneo. Regalando a Mario Draghi una rilevanza accordata fin qui solo a Silvio Berlusconi e a pochi altri premier della Prima Repubblica.
A confermare la fiducia di Washington in un premier considerato prezioso interlocutore fin dai tempi della Bce hanno contribuito i due drastici stop imposti alla penetrazione cinese sul territorio italiano. La prima artigliata di Draghi risale al 31 marzo quando il premier blocca, su proposta del ministro Giancarlo Giorgetti, l'acquisizione del 70 per cento di una ditta di semiconduttori milanese entrata nel mirino dei cinesi della Shenzen Invenland Holdings. A quel primo simbolico «niet» s'aggiungono i severi limiti imposti alla collaborazione tra Vodafone e la cinese Zte nel campo del 5G. Liberata da una minaccia gialla pronta non solo a conquistarci industrialmente e commercialmente, ma anche, nei timori di Washington, a insediarsi nel Mediterraneo attraverso l'acquisizione di porti come Trieste, l'Italia di Draghi può ora puntare al ruolo di alleato di rango. Le premesse già ci sono.
Il ritorno in Libia dopo la disastrosa ritirata degli esecutivi Conte è frutto del sostegno di un'amministrazione Biden che - oltre a considerare Draghi più affidabile di Macron o di Angela Merkel (e dei suoi possibili successori) - punta sulla capacità tutta italiana di dialogare con gli interlocutori libici. Una capacità fondamentale per ridimensionare il ruolo di Turchia e Russia considerati la grande minaccia alla stabilità del Mediterraneo. Ma il ruolo affidatoci in Libia è anche la premessa di quello che potrebbe venirci assegnato in Europa. Con l'addio di Londra alla Ue Washington ha perduto un partner fondamentale per interpretare le mosse europee e per contrastare le mosse di due alleati come Parigi e Berlino ritenuti non sempre affidabili. La Francia di Emmanuel Macron, alla disperata ricerca di una grandeur in stile De Gaulle, preoccupa soprattutto per le sue scelte strategiche e diplomatiche. La Germania di Angela Merkel, pronta a dicembre a chiudere l'accordo sugli investimenti con Pechino a nome di tutta la Ue senza rinunciare al gas russo grazie al completamento del North Stream Due, appare invece egoista e sfrontata sul piano economico. Ma le cose dal punto di vista americano potrebbero anche peggiorare. L'ipotesi di una vittoria della sinistra verde alle parlamentari tedesche di settembre è fonte di preoccupazione. Come lo è il ritorno dei falchi alla Wolfgang Schäuble ispiratori di quel surplus commerciale tedesco considerato, negli Usa, sinonimo di stagnazione economica. Ma sul versante francese preoccupa anche l'eventuale affermazione alle presidenziali del 2022 di una Marine Le Pen troppo vicina alla Russia di Vladimir Putin.
Tutte ottime ragioni che spingono Joe Biden a cercare un'intesa duratura con quel Mario Draghi che alla
presidenza della Bce si dimostrò l'unico leader europeo in grado di contrapporsi a Germania e Francia. E può, oggi, restituire a Washington la certezza di un alleato affidabile sull'agitato fronte dell'Europa e del Mediterraneo.
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