
È trascorso appena poco più di un mese dall'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, ma già non si contano gli shock, pardon le sorprese, che il presidente degli Stati Uniti è stato in grado di regalare alla comunità internazionale. Fin dall'esordio, infatti, Trump ha caratterizzato la sua presidenza con un'assertività sul fronte delle relazioni internazionali che ha lasciato e lascia tutt'ora di sasso. Trump utilizza la minaccia dei dazi commerciali per negoziare, non fa sul serio, era il leitmotiv che sentivamo pronunciare dalle labbra dei cosiddetti esperti. E invece, prima con la Colombia poi con Messico e Canada, passando per la Cina, e ora con l'Europa, The Donald sta facendo serenamente capire al mondo intero che gli americani oggi scherzano più: o si ci si allinea alle loro priorità strategiche o si è considerati nemici. Punto.
L'Europa non è dunque immune da questo triste risveglio. L'essere stata brutalmente messa in un angolo nel processo negoziale, che dovrebbe portare a un congelamento del conflitto in Ucraina, ha rappresentato una vera e proprio doccia fredda per le leadership del Vecchio Continente soprattutto se integrata allappeasement con Mosca (nei confronti della quale la Ue ha invece pensato bene di applicare l'ennesimo pacchetto sanzionatorio).
Agli occhi di Trump la precedente amministrazione aveva spinto Russia e Cina a un pericoloso allineamento che gli Usa vogliono spezzare, utilizzando l'Ucraina: cinico ma molto real politik. La sintesi sarebbe: con la Russia facciamo business, non sprechiamo risorse e concentriamoci sulla Cina. E ora, all'umiliazione subita dalla Ue sul lato diplomatico, rischia di accompagnarsi quella sul lato economico se la Casa Bianca metterà in pratica la minaccia di dazi al 25%. Un disorientamento, quello del Vecchio Continente, per certi versi comprensibile considerata l'impostazione più collegiale perseguita dalla presidenza di Joe Biden. Trump invece non solo ha voluto disconoscere la linea seguita dal predecessore, ma ha anche accusato l'Europa di tradire i principi della libertà di espressione.
Non sappiamo quanto lungimirante possa rivelarsi questo atteggiamento: così facendo Washington rischia di minare irreversibilmente la fiducia dei partner nei suoi confronti ma, a oggi questa è la realtà con cui dovremo fare i conti. Una realtà che verte sul cambiamento strutturale di policy americana dal modello liberale a quello di Governo dell'economia che fonde economia e geopolitica. Il nuovo corso di economic statecraft prevede un uso aggressivo degli strumenti economici per perseguire obiettivi di sicurezza nazionale e rafforzare la supremazia americana. A tradurre in parole semplici la nuova dottrina ci ha pensato recentemente il segretario di Stato Marco Rubio: «Ogni dollaro che spendiamo, ogni programma che finanziamo e ogni politica che perseguiamo deve essere giustificato rispondendo a tre semplici domande: questa azione rende l'America più sicura, più forte e più prospera?».
Questa svolta si manifesta attraverso un ritorno al protezionismo, mercantilismo e una gestione più selettiva delle alleanze. Uno degli strumenti principali di questa strategia è l'imposizione di dazi. Che nel caso di Messico e Canada vengono utilizzati per piegare le volontà dei vicini alle necessità strategiche americane finalizzate alla creazione di un unico blocco economico in chiave anti-Pechino. Nel caso dell'Europa e della Cina invece il dazio viene utilizzato per riallineare i surplus commerciali che i paesi comunitari e Pechino vantano nei confronti degli Usa e che sono responsabili di quel processo di finanziarizzazione dell'economia colpevole di aver determinato l'impoverimento industriale statunitense con il bene placito di Wall Street. Il secondo pilastro della strategia trumpiana è infatti proprio la rilocalizzazione dell'industria. Il presidente ha annunciato piani per incentivare la produzione interna, con sussidi mirati e l'utilizzo della Defence Production Act per accelerare lo sviluppo di settori strategici. Il terzo pilastro passa per nuove alleanze bilaterali, premiando partner ritenuti strategici. L'Argentina di Javier Milei, per esempio, potrebbe abbandonare il Mercosur in cambio di un accordo di libero scambio con gli USA. Anche l'Italia potrebbe assurgere a questo ruolo sebbene la libertà di movimento in ambito Ue è limitato dal Pnrr. Il nuovo corso economico prevede anche restrizioni ai flussi di capitali.
Il presidente ha già rafforzato il potere del Committee on Foreign Investment in the United States (CFIUS), bloccando investimenti stranieri ritenuti pericolosi per la sicurezza nazionale. Parallelamente, Washington sta elaborando una strategia per integrare il Bitcoin nelle riserve federali e aumentare il valore dell'oro detenuto nei forzieri, ampliando così il controllo Usa sul mercato finanziario globale. L'approccio di Guerra Fredda 2.0 richiama elementi del mercantilismo del XVIII secolo, del protezionismo del XIX secolo e del nazionalismo economico del XX secolo, con l'obiettivo di rafforzare l'autosufficienza degli Stati Uniti e contenere l'ascesa della Cina. In questo contesto non sorprende se le materie prime siano tornare a essere elemento centrale nuovo corso di policy statunitense. Ne è la riprova l'attenzione statunitensi nei confronti della Groenlandia (ricchissima di terre rare e minerali) e della stessa Ucraina (che di terre rare è sostanzialmente priva ma vanta importanti disponibilità di titanio, grafite, carbone, gas e minerale di ferro.
Una sensibilità, quella sulle commodities, di cui l'Europa rimane sostanzialmente priva ma che in assenza della quale sarà impossibile avviare quel processo di ampliamento della capacità produttiva sia in ambito civile sia militare necessario per non rimanere ai margini delle relazioni internazionali. Bruxelles per contro continua invece a baloccarsi in provvedimenti dirigistici come il Clean Industrial Deal che, al pari del Green Deal, faciliterà (sì, avete letto bene) la chiusura di imprese manifatturiere. Anche nell'ambito delle spese della Difesa si pensa di rivolvere la necessità di riarmo con un fondo comune laddove l'intervento della Bce sarebbe altamente più indicato per mettere i Paesi in condizione di indebitarsi a tassi controllati.
Lo scenario più probabile dunque è che Parigi e Belino ricompongano il solito asse scaricando sulla Ue i costi dell'arsenale nucleare francese, proposto come scudo militare ed energetico. L'Italia che rischia l'esclusione dal «club dei grandi» dovrà cercarsi una sua dimensione guardando all'Africa e al Medio Oriente. In definitiva, l'era del libero mercato globale sembra volgere al termine, sostituita da una nuova fase di competizione economica tra blocchi, con gli Stati Uniti pronti a usare ogni strumento a loro disposizione per riaffermare il proprio primato.
In quest'ottica o la Ue si adatta, riconosce gli errori commessi finora e cambia il modello economico privilegiando l'industria e i consumi interni o rischia l'implosione.Gianclaudio Torlizzi
*Fondatore T-Commodity
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