In autunno si svolgerà il tanto atteso referendum sulle riforme istituzionali. È in discussione l'ampia modifica alla Costituzione che il governo ha predisposto e il Parlamento, non senza una discussione molto travagliata, ha di recente approvato. Sul provvedimento si sono già formati due opposti schieramenti che argomentano le ragioni del «Sì» o del «No», discutendo nella maggior parte dei casi del merito della riforma e dei provvedimenti che essa prevede. Ma si tratta di un confronto spesso accademico (non a caso i professori universitari ne sono tra i principali protagonisti, sull'uno o sull'altro versante) e lontano dagli interessi dei cittadini. Per questo le scelte di voto non saranno basate tanto sui contenuti della riforma (che sono molti, articolati e complessi) quanto sull'appoggio al governo. Renzi ha infatti dichiarato che «punterà tutto» sul referendum costituzionale e che, in caso di sconfitta (vale a dire del prevalere dei «No») darà le dimissioni. Questa presa di posizione ha di fatto trasformato la consultazione da una valutazione sul merito della riforma (che è un'impresa assai ardua per la stragrande maggioranza degli elettori) a un plebiscito sull'esecutivo. È una scelta che fa parte della strategia di «personalizzazione» del governo attuata dall'ex sindaco di Firenze sin dall'inizio del suo mandato e che ha avuto riflessi anche nella composizione, oltre che nell'azione dell'esecutivo stesso. Si tratta di un vero e proprio rivolgimento nella tradizione referendaria del nostro Paese. Che ha visto nel passato queste consultazioni caratterizzarsi, nella maggior parte dei casi, per l'invito agli elettori a pronunciarsi su un tema «concreto» e facilmente intellegibile da tutti. A partire dallo «storico» referendum sul divorzio nel 1974, che, proprio in relazione al tema che proponeva, vide per la prima volta gli italiani votare in modo disgiunto dalle proprie appartenenze politiche tradizionali.
La motivazione di voto prevalente sarà dunque il «Sì» o il «No» a Renzi. È soprattutto per questo motivo che i partiti e i leader di opposizione si sono schierati per il «No» (anche contraddicendo alcune posizioni espresse in passato nel merito di alcuni contenuti della riforma costituzionale) e quelli di maggioranza (salvo significative dissidenze interne al centrosinistra) propendono per il «Sì».
Ma, dato che mancano molti mesi al voto, gli italiani sono ancora poco informati. Lo dimostra anche il recente sondaggio condotto dall'istituto Eumetra Monterosa su di un campione rappresentativo della popolazione in età di voto. Solo il 45% degli intervistati dice di essere al corrente del referendum e di conoscerne il contenuto. Un altro 27% ne ha sentito parlare, ma non sa su cosa si vota. E il 28% dichiara di non sapere della consultazione referendaria. Insomma, meno della metà degli italiani ha piena cognizione della scadenza di voto nell'autunno, cui tutti i media stanno dedicando largo spazio proprio in questi giorni. Senza dubbio la consapevolezza crescerà nel tempo: si è già incrementata rispetto a febbraio quando solo il 29% degli intervistati dichiarava di essere compiutamente a conoscenza del referendum. Risultano, come ci si poteva aspettare, oggi relativamente più informati i giovani e coloro che posseggono un titolo di studio più elevato. Sul piano dell'orientamento politico, la consapevolezza risulta più accentuata tra chi ha intenzione di votare per il Pd e per il M5S (in entrambi i casi il 59% dichiara di conoscere il contenuto del referendum), mentre lo è assai meno nell'elettorato di centrodestra: solo il 35% dei potenziali elettori della Lega e il 31% di quelli per Forza Italia appaiono pienamente edotti della consultazione. Questa carenza di informazione nel centrodestra suggerisce come in quest'area politica il processo di mobilitazione per il voto sia ancora indietro.
Ma come voteranno gli italiani in autunno? È la domanda che oggi tutti i media si pongono e per la quale in questo momento non vi può essere una riposta precisa perché la consultazione è ancora troppo lontana nel tempo e la campagna elettorale «vera» deve ancora avere inizio. Possiamo però rilevare le intenzioni di voto espresse oggi, anche se, è bene sottolinearlo, difficilmente esse possono dare una indicazione affidabile su quello che accadrà in ottobre. Secondo le riposte degli intervistati da Eumetra Monterosa, il 17% voterà «Sì» alla riforma costituzionale proposta dal governo, il 26% voterà «No» e ben il 57% (era il 74% nel febbraio scorso) dichiara di essere ancora indeciso. È quest'ultima fetta di elettorato (presente soprattutto tra gli anziani, tra chi possiede un titolo di studio meno elevato e tra casalinghe e pensionati) ad essere dunque decisiva nella formazione del risultato effettivo. Ma non si può non constatare che, per ora, il «No» appare prevalere nell'orientamento degli intervistati: escludendo, in via del tutto teorica, dal computo i tanti indecisi (ciò che rende evidentemente il dato solo indicativo e soggetto nel tempo a mutamenti anche rilevanti), il «No» si assesterebbe all'incirca al 60%. Anche se si limita l'analisi solo a chi dichiara di conoscere i contenuti del referendum (e sempre escludendo dal calcolo gli indecisi), il «No» appare conquistare (di poco) la maggioranza (51%). Questi dati sembrano confermare il quadro tracciato da alcuni (ma non tutti) degli studi analoghi apparsi nelle ultime settimane. Ma ciò che emerge dalla totalità dei sondaggi pubblicati è che tutto dipenderà, come si è detto, dalle scelte degli indecisi e, in particolare dalla decisione di aderire o meno alla consultazione: la partecipazione al voto sarà, assieme alla campagna elettorale, l'elemento decisivo per il risultato «vero». Per ora l'indecisione (correlata, come abbiamo visto, con la scarsa informazione) è più diffusa tra i votanti del centrodestra. Tra i quali, considerando solo chi esprime già un orientamento, è comunque prevalente la scelta del «No» (che si attesta, escludendo gli indecisi, al 72%). Anche tra chi dichiara di essere orientato a scegliere il M5S, i «No» sono di più (76%, senza computare gli indecisi). Mentre nell'elettorato del Pd, la maggioranza, com'era prevedibile, si schiera per il «Sì» (81%, sempre escludendo gli indecisi). Emerge dunque, nelle risposte degli intervistati che hanno già maturato una intenzione di voto al referendum, una netta contrapposizione in relazione all'orientamento politico e, in particolare, al sostegno dato al governo.
Ma, se effettivamente prevalessero i «No», Renzi si dimetterebbe per davvero? Malgrado le promesse date dal presidente del Consiglio, la maggior parte (56%) degli intervistati non sembra oggi crederci. Anche tra chi è orientato a votare Pd, la maggioranza relativa (44%) è scettica sulle reali intenzioni dell'ex sindaco di Firenze.
L'insieme di questi dati conferma come, già in queste fasi iniziali in cui si rileva tra la popolazione una ancora scarsa conoscenza del tema oggetto del referendum e, spesso, dell'esistenza stessa della consultazione, la quasi totalità degli orientamenti espressi tragga origine non tanto da una valutazione di merito (assai difficile), quanto dalla propria posizione politica, con una netta frattura delle intenzioni di voto in relazione all'appoggio o meno dato
a Renzi. È l'inevitabile conseguenza della «personalizzazione» del referendum che, da pronunciamento sulla riforma, è stato fatto divenire una consultazione sul consenso all'esecutivo e, in particolare, al suo presidente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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