L'ultima "evasione" di Vallanzasca. Via da Bollate verso una Rsa: è malato

Il Tribunale accoglie la richiesta dei legali, dopo 52 anni di galera il bel René finisce in una struttura veneta specializzata in demenza

L'ultima "evasione" di Vallanzasca. Via da Bollate verso una Rsa: è malato
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«Incompatibile con il carcere» sarebbe l'epitaffio perfetto per Renato Vallanzasca. La chiamano demenza senile, al bel René serve per uscire finalmente dal carcere di Bollate in cui la giustizia lo ha voluto rinchiudere a forza, lui che a otto anni veniva pizzicato dagli sbirri per aver tentato assieme ai suoi amichetti di liberare dalle sbarre gli animali di un circo. Lo Stato lo ha condannato a quattro ergastoli, 295 anni di reclusione e l'isolamento diurno, nonostante l'età e la sua decadenza fisica e mentale crescente dal 2018, quasi a vendicarsi di uno sfrontato capellone dagli occhi azzurri e col «carattere intemperante» che ha tenuto lo Stato sotto scacco senza essersi mai ravveduto, con l'onta di una strana condanna - l'ultima - per «rapina impropria» di qualche mutanda in un supermarket. Ma l'uomo di 75 anni un po' claudicante destinato a una Rsa in Veneto specializzata in Alzheimer è solo la crisalide dell'ex boss della Comasina, nomignolo che non gli è mai piaciuto, lui che da bambino viveva al Giambellino da «zia Rosa» in via degli Apuli. «Se avessi saputo di dover restare tutta la vita in galera, avrei preferito la pena di morte» confessò una volta in ascensore Vallanzasca allo scrittore Alex Rebatto.

È da un paio d'anni che si è spento lentamente, lasciando ai libri di storia il bandito che contendeva Milano a Francis Turatello, suo compare d'anello al matrimonio con Giuliana Brusa, mentre l'infame Angelo Epaminonda detto il Tebano e i suoi amici mafiosi rosicavano. Dei suoi rapporti con il suo amico-rivale di una vita, figlio illegittimo di Frank tre dita (come quelle di suo padre Osvaldo Pistoia, che ne aveva perse due alla Fiat di Torino), scannato in carcere da Vincenzo Andraous in carcere e sepolto a Monza ci sarebbe da scrivere montagne di libri anche se siamo nel 2024, anno funesto e bisesto come il 1972, quello della sua prima rapina il 29 febbraio. In mezzo 52 anni di cella, quattro sequestri, decine di rapine, sei morti tra cui i poliziotti Bruno Lucchesi, Luigi D'Andrea, Renato Barborini, eroi in divisa uccisi dai suoi o da lui poco importa. «Ammazzavano per me, la responsabilità è comunque mia», diceva sempre ricordando con rammarico la morte ingiusta del medico Umberto Premoli, falciato in via Monte Generoso sulla sua Fiat 132 dopo una partita di ramino perché intralciava Claudio Gatti e Vito Pesce in fuga dagli sbirri. I suoi dioscuri Pinella Colia e Rossano Cochis si sono già congedati da questa terra in modo quasi banale, il suo ex delfino Massimo Loi è finito decapitato, forse ancora da Andraous: aveva tradito e si era beccato una raffica di coltellate in pancia e uno schiaffone da Vallanzasca mentre rantolava: «Cornuto, difenditi perché ti sto ammazzando!», racconterà il bandito a Leonardo Coen.

Non si può scappare da un destino come dall'oblò del traghetto che nel 1987 da Genova doveva portarlo a Nuoro in Sardegna, gabbando così i cinque carabinieri che lo scortavano. È finita l'era delle mirabolanti evasioni, non c'è urina da iniettarsi, non ci sono uova marce da mangiare per farsi mandare in ospedale e da lì scappare, inseguito dai poliziotti a piedi o in macchina, non ci sono rivolte da incendiare o graziose ereditiere da rapire. Magari senza sparare un colpo, in ossequio alla mala milanese, la ligéra cantata da Nanni Svampa che andava in giro leggera, senza armi, senza disturbare troppo come insegna la 'ndrangheta che oggi ha imparato la lezione. Che il sangue attira la madama, i caramba e i giornalisti, pure quelli scemi a cui rubare tranquillamente la carta d'identità per muoversi liberamente da latitante su auto veloci, a caccia del solito bottino: soldi, e tanti, donne e bellissime.

Dopo mezzo secolo in trentasei penitenziari diversi, il carcere dovrebbe rieducare: lui ci aveva provato, come magazziniere, pellettiere, commesso in un negozio di abbigliamento a Bergamo o della rivendita del Lotto numero 1 sotto la vecchia sede del Giornale, la sua fama lo rincorreva come gli sbirri sulle volanti e quegli impieghi duravano sempre troppo poco, ma la colpa era sempre sua, delle «involuzioni trasgressive», del suo caratteraccio burbero che solo la sua storica compagna sin dall'infanzia Antonella D'Agostino gli ha

(quasi) sempre perdonato fino a sposarlo con rito civile. Poi si è arresa anche lei. Non è più lì, a tenerlo per mano, nell'ultima innocente evasione, come quando insieme combattevano per la libertà di un animale in gabbia.

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