L'ultima frontiera quirinalizia

Viva Sanremo delle mamme e delle lacrime, dell'unità d'Italia, della Costituzione strimpellata. Sanremo delle luci sulle palme, delle canzoni che sguazzano nel business miliardario dei senza-memoria, viva Sanremo

L'ultima frontiera quirinalizia

Viva Sanremo delle mamme e delle lacrime, dell'unità d'Italia, della Costituzione strimpellata. Sanremo delle luci sulle palme, delle canzoni che sguazzano nel business miliardario dei senza-memoria, viva Sanremo. E quando il presidente della Repubblica si presenta sul palcoscenico per la prima volta in oltre settant'anni, è subito chiaro che ha portato l'asticella del Colle un po' più in là, oltre la briscola di Pertini e il piccone di Cossiga, oltre la sua mano che si accarezzava i capelli candidi e in disordine tralasciati dal barbiere durante il lockdown.

Eppure, la rivoluzione silenziosa e mite dei costumi quirinalizi è finita sepolta dalle polemicucce di corto respiro, tra le stizze incrociate di Vigilanza Rai e compagnia, tra il can can degli agenti televisivi e le smargiassate costituzionali del benigno Benigni. Lui sì, un genio: dice al presidente che la Costituzione è sua sorella. Parole misteriose ma anche da osteria. Poi c'è uno che diventa famoso all'istante perché sfascia tutto purché faccia share, come è giusto. Cos'altro è Sanremo, se non una pausa dalla ragione, dal decoro, dalla decantata e decotta dignità?

Avevamo già visto quel bruttissimo e vanitoso recital di Roberto Benigni in cui ci volle declamare con gobbe cammellate di enfasi e pause, tutte ammiccanti, la bellezza senza paragoni della Costituzione della Repubblica italiana, che solo iddio sa quanto grave e urgente bisogno abbia in realtà di essere riadattata all'epoca delle grandi democrazie liberali. Parole che sgualciscono la Carrta così come a strattoni Benigni sgualcì - osannato - anche la Divina Commedia.

Del resto, il comico toscano che fu irresistibile protagonista di Televacca aveva già fatto uso molto discutibile della Shoah con un filmino edulcorante, dubbio e surreale in cui nulla di nulla di nulla, neppure in una memoria remota, aveva a che fare con l'immane sacrificio con cui pretendeva di giocare a nascondino. E lo ritroviamo nel grande selfie della triste historia italiana, in un baldaccone luccicante ammucchiato di bandiere, lustrini, carte fondamentali, carte oleate, in cui si piange a come a Capodanno, ci si commuove come a un funerale. La Costituzione è cantata e ritmata, Mattarella intona l'inno e Benigni fa il Bertoldo dando del cognato della Costituzione al presidente che di mestiere fa l'istituzione. E tutti insieme si balla il valzer della Carta che non sapeva di essere invitata e non aveva il vestito giusto, sicché la gente, poveretta, per l'imbarazzo applaude. Cos'altro vuoi che faccia?

Del resto, come disse il manierista secentesco e poeta Giovan Battista Marino, va ricordato che in Italia non occorre il senso delle cose perché come tutti sanno «è del poeta il fin, la meraviglia». Ovvero, in lingua di Fellini e Cinecittà «a regà, cerchiamo de fa' er botto e domani je famo vede con l'ascorti».

E difatti gli ascolti hanno fatto un botto come il pallone volante cinese a spasso nei cieli americani. Ci siamo stupiti mille volte a Sanremo, ma ci viene il dubbio di esserci anche instupiditi, a Sanremo.

Però c'è di bello che per quanto si salga e si scenda l'abisso, non si trova mai fondo e tutti applaudono e tutti urlano che è bellissimo e tutti piangono e tutti sono sicuri che nessuno, nessun altro, nessun Paese, città o teatro potrà mai avere quel che ha avuto e avrà, Sanremo.

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