L'ultima sfida nella Babele delle lingue: l'Odissea tradotta in dialetto milanese

Trasposti in meneghino i dodicimila versi di Omero. E ora tocca all'Iliade

Maria Teresa Santaguida

Milano Ventiquattro libri, oltre 12mila versi e due lingue apparentemente incomunicabili: il greco antico e il dialetto milanese. Sembrava un'impresa inavvicinabile quella di tradurre l'Odissea per Walter Moneta e Claudio Brambilla, ma nulla è impossibile per la mente e l'attitudine dello studioso, nemmeno quando è in pensione. L'impresa titanica di tradurre il poema omerico nel dialetto meneghino è infatti stata compiuta da due over 75. Tempo, dedizione e pazienza: è tutto quello che è servito per riportare una storia antica, lunga e complessa come quella dell'eroe greco che ha traversato il mare verso Itaca, con le parole di una lingua diventata ormai rara, il dialetto della Madonnina.

L'incontro, come raccontano gli stessi autori, è avvenuto due anni fa a partire da una comune passione: la poesia. Da un lato Brambilla, 79enne ex top manager nel campo farmaceutico, con una sola grande passione: quelle lingue che solo chi non le ama ha il coraggio di chiamare «morte» e in particolare quella ellenica. Dall'altro Walter Moneta, anche lui pensionato, poeta dialettale pluripremiato. Quindi l'idea, partita da una necessità: Brambilla frequenta da anni, dopo il ritiro dal lavoro, il Seminario Omerico dell'Università Cattolica di Milano, guidato dal professor Mario Cantilena. In una delle lezioni, quasi per divertissement, ha provato a tradurre pochi versi del poema in milanese. La formularità della prassi omerica però diventava difficile nel vocabolario milanese, quindi la richiesta di consulenza all'amico esperto Moneta. Compagno di scuola e di studi «ragionieristici». Da qui la prima Odissea in milanese data alle stampe nel 2018 e subito seguita da un'idea ancora più impegnativa: passare all'Iliade. L'infaticabile Moneta ha quindi continuato a tradurre Omero - il poema della battaglia di Troia potrebbe essere pronto entro l'anno - dedicandosi nel frattempo a testi più «leggeri» come Gli uccelli di Aristofane.

Ma qual è la vera difficoltà nel trasportare un'opera monumentale in una lingua non letteraria come il dialetto? La povertà di vocaboli, forse, a cui può fare da supplente solo la fantasia. Ecco allora che le parole «alate» del poeta cieco diventano «paròll tutt d'on fiaa», mentre la formula «quand'ebbero scacciata la voglia di bere e di cibo» diventa sotto la Madonnina «poeu, descasciada la voeuja de bev e de menà el babi»; più azzardata ancora la resa di «Ma dimmi una cosa, e dilla con tutta franchezza», che risulta «dèss via, quèst chì dimm e dimmel senza vernis». Il classico «mare nero come il vino», è «tenc com'en vin» mentre l'Aurora «rhododaktulos» in greco, cioè dalle «dita di rosa» in milanese ha i «did incarnadin». Poetica anche una delle formule che solitamente chiudono le scene più ricche di pathos: «Il sole calò e tutte le strade s'ombravano» recita la traduzione italiana, mentre Moneta la rende con «El sô l'è andaa-giò e tutt'i straa pencioraven».

Segni fonetici che con acribia sono stati utilizzati dagli autori per rendere i suoni più particolari del vernacolo, come le vocali «turbate» tipiche della lingua il cui poeta medievale più famoso è Bonvesin della Riva. Il celebre «lavaggio dei panni in Arno» aveva fatto dimenticare persino al milanesissimo Manzoni la sua lingua d'origine, portandolo a scrivere l'opera più lombarda che c'è, i Promessi sposi, in un italiano ormai standard. Ma nell'epoca delle autonomie ricercate e forse di una nuova ricerca delle origini, mentre le distanze del mondo si accorciano, un'operazione di questo tipo «non è affatto nostalgica» garantiscono gli autori.

Serve piuttosto a dimostrare che lo studio non termina certo con gli anni dell'università e può essere forse il migliore compagno per chi vive le lunghe giornate di meritato riposo dopo aver lavorato sodo tutta la vita, come nella religione di Milano.

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