Il secolo, quello vecchio, non se ne vuole andare. Sta ancora qui, dopo vent'anni, come un patriarca che non riconosce eredi, un fantasma incarognito. Il Novecento non è mai stato breve, rapido, vorticoso, vorace, frenetico, senza mai un attimo di respiro magari sì, ma hai confuso la velocità con la lunghezza. È il grande inganno che non si finisce di scontare. Non è chiaramente una questione di calendari, ma di idee. Tobia è un nome di fantasia. È uno studente di 25 anni di scienze internazionali. Non è uno di quelli che ha imbrattato di rosso la statua di Montanelli a Milano, ma - dice - li rappresenta. È stato intervistato da Paolo Colonnello su La Stampa. Parla come un maestro del pensiero e ci tiene a sottolineare che non è un vandalo, né lui né gli altri. La decisione di sporcare Indro è stata «collettiva». È una parola che gli appartiene, che ripete e sente sua. Perché lo hanno fatto? È qui il punto intorno al quale vale la pena riflettere: per processare il Novecento.
È un salto nel tempo, alle tue illusioni, ai tuoi vent'anni, prima della caduta del Muro di Berlino e poi dopo, quando la storia si ferma e sembra che stia per finire, per poi scombussolare di nuovo tutti gli equilibri. L'ambizione di quella che per brevità si può chiamare «generazione X» era più o meno la stessa. Scappare dal Novecento, chiudere i conti, buttarsi alle spalle il codice binario del rosso e del nero e avventurarsi in un altro orizzonte, senza camicie, senza barricate, magari con un vago sogno di anarchia. Qualche anno dopo appare la rete, internet, e sembra quello lo spazio, infinito e virtuale, senza poteri e senza confini, dove fuggire dal Novecento. Era una trappola o una beffa, perché è proprio lì che il secolo che non vuole morire ha ricostruito le sue piazzeforti.
Quella generazione voleva «processare il Novecento» per liberarsi del suo lato oscuro. Era la condanna di tutte le ideologie totalitarie, quelle dove lo Stato, la Nazione, la Classe Sociale, il Partito erano tutto e l'individuo nulla. Quelle che mettevano l'umano al servizio di un ideale più grande, una sorta di Dio incarnato che ti metteva in ginocchio nel nome della giustizia o della gloria. Questo, per te e per tanti altri, era il Novecento da rinnegare. Ti dicevi che bisogna trovare una nuova mappa per orientarti nel nuovo millennio. Quella lì, quella vecchia, era un navigatore satellitare obsoleto, con strade vecchie e pericolose.
Tobia e i suoi compagni dicono che anche loro vogliono processare il Novecento. Quale, però? I peccati della civiltà liberale e democratica. I peccati, insomma, dell'Occidente. Quei peccati esistono e vanno superati. Ci sono in Occidente e ancora di più nelle terre dove libertà e democrazia sono vissute come straniere. Era proprio questa la sfida, la speranza di non vedere più un uomo ucciso per strada per il colore della pelle, per le proprie idee, per la religione, per chi si ama o con chi si fa sesso.
Tobia ti dirà che proprio questo è il senso del suo processo. Qui però avviene un corto circuito. La fuga dal Novecento, da sinistra e da destra, segue i vecchi sentieri. Si sta cercando di abbattere il secolo che non muore con le armi più cupe del Novecento. Si sono creati di nuovo due fronti: i globalisti contro i nazionalisti. I primi subiscono il fascino di frammenti di idee e simboli del comunismo, gli altri del fascismo. È come se andassero a ripescare slogan consumati, pugni o mani alzate, eroi e martiri, reminiscenze di odio e bignami ideologici dal mercato delle pulci della storia. L'effetto, se lo guardi a una certa distanza, è surreale. Il processo finisce per prendere pezzi di passato, a volte perfino a caso, gettandoli in un frullatore spazio-temporale dove tutto allo stesso tempo è ieri e oggi.
Ti ritrovi così all'improvviso sbalzato a cento anni fa, nel biennio rosso italiano, dove lo scontro è su quale colore dare alla rivoluzione. Il paradosso è esattamente questo. Non si va oltre il Novecento lavorando per migliorare libertà e democrazia. Lo stiamo solo resuscitando, reincarnando i tempi della sua gioventù.
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