Tra i benemeriti del genere umano, quando si stilerà un elenco delle piccole cose che fanno il nostro quotidiano, l'inventore della Nutella, Michele Ferrero, avrà certamente un posto di riguardo. Ma non vi è dubbio che accanto al suo - a pari merito, diremmo- ci sarà il nome di Ingvar Kamprad, il fondatore di Ikea morto ieri l'altro all'età di 91 anni. Due grandi con molti tratti in comune, primo fra tutti una passione per l'understatement. Ovvero un riserbo, una ostinata riluttanza a comparire, a gloriarsi degli imperi messi in piedi in decenni di lavoro accanito e di successi planetari.
Gli americani di Bloomberg lo avevano messo l'anno scorso al tredicesimo posto fra gli uomini più ricchi del mondo, con i suoi 41 miliardi di dollari di patrimonio. Ma lui, il «signor Ikea», non aveva mai smesso di essere il «monaco» schivo e frugale che tutti i suoi dipendenti, sparsi nei cinque continenti, chiamavano affettuosamente «il grande avaro». Rivestito di abiti comprati quasi sempre di seconda mano, al mercato delle pulci, il vecchio Ingvar viaggiava sempre in «turistica», sugli aerei. Ed era famoso per le sue intemerate ai dipendenti sciuponi che non usavano anche il retro di un foglietto, per prendere appunti. Famosa la sua utilitaria, vecchia di 15 anni, con cui si scarrozzava in Svizzera, dove si era rifugiato con la seconda moglie un giorno del 1976 in una modesta villetta da impiegato, per sfuggire all'esoso fisco svedese. Tutto questo fino a pochi anni fa, quando si accorse all'improvviso che «i soldi non sono tutto nella vita». Dopo di che quest'uomo sobrio fino alla «tirchieria» (parole sue) disse addio alla Svizzera e se ne tornò al paese, nel sud della Svezia. In una modesta villetta vicino a Aelmhult, cittadina della regione meridionale di Småland dove era nato. «Tra gli amici con cui sono cresciuto e i dipendenti del nostro gruppo, che sono la mia grande famiglia», si raccontò in un'intervista dell'anno scorso.
Nato il 20 marzo 1926, Kamprad aveva rivelato presto un portentoso bernoccolo per gli affari. Cominciò rivendendo ai suoi amici campagnoli i fiammiferi che acquistava all'ingrosso a Stoccolma (fiammiferi svedesi, naturalmente). Poi passò alle decorazioni natalizie, alle matite e alle penne, fino al colpo di genio: i mobili, e insieme ai mobili, nello stesso negozio, gli accessori. Con un bar-ristorante annesso. «Perché comprarsi dei mobili a pancia vuota fa venire il nervoso», spiegava ai suoi collaboratori. Mobili belli, pratici, facili da portarsi a casa sul portapacchi della propria auto e facili da rimontare, risparmiando un sacco. Metteteci un design accattivante, unito a materiali a basso costo, ed ecco il successo di una (futura) multinazionale che non ha mai conosciuto la parola «crisi». Nasceva l'Ikea, un impero che oggi veleggia intorno ai 50 miliardi di ricavi annui. Con 190mila dipendenti sparsi in 270 grandi esposizioni di 36 nazioni.
Il nome dell'azienda da lui fondata è un acronimo in cui figurano le iniziali del suo nome insieme con la «E» di Elmtaryd, la fattoria in cui diventò grande e la «A» di Agunnaryd, il piccolo paese del sud della Svezia in cui nacque.
Nel 1976, Kamprad pubblica «Il testamento di un venditore di mobili», in cui spiega l'etica rigorosa che ha sempre informato il suo lavoro. A sessant'anni, nel 1986, cede le redini dell'azienda ai figli, mantenendo il ruolo di «consulente senior». Ma è sempre lui, per ogni prodotto, a dire l'ultima parola.
Nel 1994 un quotidiano svedese rivelò la passata amicizia di Kamprad con il leader di un gruppo filo nazista svedese.
Lui chiese scusa ai suoi dipendenti ebrei, definendo quell'esperienza come «il più grande errore» della sua vita. Una storia vecchia. Ai figli, ai dipendenti, ai milioni di clienti lascia in eredità... un catalogo. Un catalogo di prodotti che per diffusione è secondo solo alla Bibbia.
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