Non avranno più volto, non avranno più nome, diventeranno schiave sessuali dei soldati talebani, ridotte a essere un numero tra tanti altri insignificanti numeri. Le donne afghane sono le vere vittime dello scempio compiuto da un Occidente in fuga che prima dà la speranza a un popolo di risollevarsi e poi se la dà a gambe levate, facendolo ripiombare nell'oscurità dell'incubo.
Fatima ha 35 anni, non si è mai sposata, perché ha scelto la vita militare, entrando giovanissima nelle Forze di sicurezza afghane, una conquista ottenuta grazie all'impegno per la pace della coalizione internazionale.
Ha collaborato per lungo tempo con gli americani, ma non è riuscita a salire su uno degli aerei in partenza, perché fino a due giorni fa ancora sperava di vedere il suo Paese libero dai talebani. «Mi uccideranno - dice con la voce rotta dal pianto al telefono - perché sanno bene chi ha aiutato gli occidentali. Stanno facendo le liste in ogni città delle donne single, dagli 8 ai 45 anni. Molte saranno uccise, altre andranno in moglie ai talebani». L'obbligo del burqa era decaduto in questi vent'anni di «protezione» internazionale, come lo era il divieto per le donne di portare i tacchi, una imposizione talebana risalente al 1997, perché neanche il rumore del sesso femminile si doveva sentire più.
Il ticchettio delle scarpe alte sull'asfalto non poteva renderle nullità. E allora la decisione di farle diventare invisibili. Eppure negli anni molti passi avanti si erano fatti, con la procuratrice di Herat, Maria Bashir, paladina di molte rappresentanti del gentil sesso poi finite in parlamento, nella politica, nel giornalismo, sui social media.
Con le giornaliste che avevano avuto la forza di creare radio e canali aperti all'esterno, con l'emancipazione di una generazione nata sotto l'ombra della Nato. C'è un video che circola su Telegram, è quello della regista afghana Sahra Karimi, in fuga da Kabul.
«Alcuni occidentali - spiega nel filmato - non capiscono, lo so». Perché è difficile far comprendere cosa significhi tornare indietro di decenni o forse di secoli. L'Afghanistan degli anni Sessanta, quello con le donne in minigonna in giro per Kabul prima dell'avvento degli estremisti talebani, non è che un lontano ricordo.
«Mia moglie - racconta un interprete afghano - piange di continuo. Sa che ho collaborato con gli italiani. Teme soprattutto per i nostri figli. Se non riusciremo a partire i due maschi saranno probabilmente presi e mandati in Pakistan, dove li addestreranno come terroristi. Le femmine andranno in sposa a questa gente. Siamo disperati».
Parlando alla BBC, il portavoce dei talebani Suhail Shaheen ha rassicurato dicendo: «Le donne potranno uscire di casa e studiare», ma le speranze che sia vero sono flebili. Lo ha confermato anche il giornalista Toni Capuozzo, spiegando che «i diritti delle donne sono drammaticamente in forse».
Nel 2012, nel carcere di Herat, era detenuta Amina, una giovane trovata a parlare col fidanzato senza l'autorizzazione del padre. Doveva scontare cinque anni. Ma i tempi erano velocemente cambiati e anche lei era uscita.
Fino a pochi giorni fa l'Afghanistan era un Paese in rapida evoluzione, che iniziava a garantire diritti e possibilità, anche alle categorie più fragili. È bastato un colpo di spugna per cancellare vent'anni di impegno. La speranza di donne e bambini di avere un futuro sarà nuovamente celata da un burqa.
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