Dodici condanne in quattordici anni. Numeri, inediti, che si commentano da soli. La legge sulla responsabilità civile dei giudici è un flop. E di fatto non funziona. I cittadini che vogliono intraprendere una battaglia contro gli errori commessi dai magistrati hanno le armi spuntate. E a poco o a nulla è servita la modifica della norma nel 2015. Allora si pensava che l'abolizione del filtro, che bloccava gran parte delle pratiche sulla griglia dell'inammissibilità, avrebbe portato ad un aumento delle condanne. «La relazione tecnica del 2015 - spiega al Giornale Enrico Costa, deputato da poco rientrato in Forza Italia - immaginava 10 condanne l'anno per una cifra complessiva di 540 mila euro». Un budget minimo, striminzito, povero ma comunque un piccolo salvadanaio per fronteggiare quel che sarebbe successo.
Invece è andata in un altro modo: dieci condanne non in uno ma in dieci anni. Insomma, lo spirito del referendum del 1987 continua ad essere disatteso. Allora, anche sull'onda del caso Tortora, si pensò che una norma del genere avrebbe responsabilizzato le toghe e offerto un indennizzo decoroso ai cittadini, vittime di sbagli a volte imperdonabili.
Ma le maglie strettissime della normativa hanno trasformato la legge in una pistola scarica. Dal 2010 ad oggi sono state avviate 815 cause con questa motivazione e di queste 311 sono giunte a sentenza definitiva. Le condanne sono appunto 12, ovvero l'1,44 per cento dei procedimenti iniziati.
Attenzione: parliamo di una rivalsa indiretta nei confronti delle toghe. Il cittadino infatti chiama in causa lo Stato, non il magistrato, che semmai, sarà oggetto di una secondo procedimento intentato dalla pubblica amministrazione e di cui la presunta vittima di ingiustizia non saprà mai nulla.
Siamo lontanissimi, come è evidente, da una giustizia giusta, perché i meccanismi sono così tortuosi e contorti da rendere di fatto impraticabile l'azione risarcitoria.
«Alcune cause - aggiunge Costa - si sono infrante contro il muro dell'ammissibilità, eliminato nel 2015, altre sono state rigettate e qualcuna è ancora in corso, ma i dati complessivi sono quelli di un colossale fallimento. I magistrati che sbagliano non pagano, neppure in modo indiretto». E ai cittadini restano il danno e la beffa.
Tutto ruota intorno alla clausola che afferma: «Non può dare luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove».
Insomma, se un giudice scivola in modo grossolano sulla lettura di un articolo del codice, prendendo lucciole per lanterne come e più di uno studente al primo anno di giurisprudenza, non per questo la sua sentenza può essere messa sotto processo. E lo stesso capita se un magistrato inciampa, si confonde o peggio capovolge le prove, provocando un disastro sul piano giudiziario. Pure in questa circostanza, la clausola ha il valore di uno scudo e azzera tutti i tentativi per farlo rispondere, sia pure in modo indiretto e senza toccarlo nel portafoglio, per la sua condotta sciagurata.
Di fatto, siamo all'immunità, con margini ridottissimi per bucare questa corazza quasi impenetrabile. «Ho presentato - conclude il parlamentare azzurro - una proposta di legge per modificare la norma e portarla sul terreno della concretezza. Nessun intento persecutorio, ci mancherebbe, ma il riconoscimento che la responsabilità non può ridursi a una formula astratta.
Il magistrato ha un grande potere e se non lo esercita correttamente è sacrosanto che ne risponda». Sul piano della carriera, su quello disciplinare e su quello contabile. Oggi invece questo è un evento rarissimo.Dodici condanne in 14 anni sono un verdetto di colpevolezza. E a pagare è lo Stato.
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