In quel corridoio che immette nell'ascensore dei ministri che porta fuori da Montecitorio da un ingresso secondario, reso inaccessibile delle nuove regole sulla pandemia, il cronista intercetta il presidente del Consiglio dimissionario, Giuseppe Conte. «Presidente lo ferma e gli dice ne ho scritte di tutti colori su di lei, ma riconosco che è una persona simpatica». Giuseppi ridacchia e da uomo di mondo, dalla pelle dura, esclama: «Ora che me ne vado tutti parlano bene di me!». Il cronista insiste: «Ma andrà avanti anche nel nuovo governo». Conte replica pronto con ironia: «No, perché torneresti a parlar male di me». È possibile, invece, che non sarà così, che alla fine Giuseppi entrerà nel governo Draghi, magari come ministro «per l'integrazione energetica», per far felice Beppe Grillo che al presidente ha spiegato come il suo sogno sia quello di trasformare i grillini sul modello dei verdi tedeschi. E se dovesse succedere non sarà il caso di scandalizzarsi: i tempi della politica nell'era di internet e di tweet sono estremamente brevi. Nel terzo millennio l'unità di tempo è il battito della farfalla: il telefono fisso di mia madre ha funzionato per quaranta anni, uno smartphone ora se ti va bene ti dura due anni. La politica, quella nuova, è così. Una settimana fa Matteo Salvini diceva che voleva solo le elezioni. Tre giorni fa che magari avrebbe potuto astenersi su Draghi. Ieri, invece, ha annunciato che la Lega entrerà al governo, non porrà veti né li accetterà (tradotto: se Conte sarà al governo ci sarà anche lui, o entrambi fuori) e vorrà dei ministri del Carroccio dentro. Uno, due e tre mosse, e il Pd è andato in tilt, non tutto ma gli eredi del Pci, dei Pds, dei Ds sì. «Se la Lega deciderà di far parte del governo Draghi scommetteva una settimana fa, Matteo Renzi nel Pd scoppierà il panico».
E così è stato. Ieri a metà mattinata Gianni Cuperlo, l'anima innocente degli eredi del Pci, ha messaggiato che se Salvini avesse accettato di far parte della compagnia di Draghi, il Pd avrebbe optato per l'appoggio esterno. Goffredo Bettini ha fatto molto di più: «er monaco» (così lo chiamano nel Pd) è «l'uomo per usare le parole di Zingaretti - che non ha incarichi istituzionali nel partito ma a cui si rivolgono tutti»; una specie di mr. Wolf di Pulp Fiction all'amatriciana, solo che mentre il personaggio di Tarantino «aggiusta le cose», lui le rompe. Lo stava facendo pure ieri, visto che ha lanciato il messaggio dell'«appoggio esterno a Draghi» nel firmamento della politica e nei suoi Palazzi. Facendo, giustappunto, scoppiare il panico. L'unico che era del tutto ignaro di una simile eventualità, che come al solito è caduto dal pero, è stato il mite Zingaretti: a chi lo ha messo al corrente, ha risposto con un sms non con uno, non con due, non con tre, ma con ben 6 punti interrogativi. Eppoi ha smentito tutto: non avrebbe potuto fare diversamente, visto che 24 ore prima aveva assicurato a Mattarella al telefono che il Pd, in ogni caso, sarebbe stato dentro il governo.
Il problema è che l'anima ex comunista non cambia nei comportamenti, è tetragona, ha una sorta di riflesso di Pavlov, ha bisogno di un'ideologia, di un nemico, di uno «perimetro» dove vivono gli uomini del «bene» e fuori dal quale ci sono gli uomini del «male». Una volta l'ideologia era il comunismo, poi è stata la volta degli «onesti» che ora si sono trasformati in «europeisti». Anche le sembianze dei nemici sono cambiate: dai «fascisti», ai «disonesti», ai «sovranisti». Insomma, la cultura e il costume sono rimasti gli stessi, per il resto è stato solo un lungo declinare: dal glorioso partito comunista, siamo passati al più modesto Pds; poi, ancora, è stata archiviata la parola partito, fuori moda, e siamo arrivati ai Ds; poi, c'è stata la fusione nel Pd con i cattolici della margherita, ma loro sono rimasti «eredi del Pci» dentro; e, ora, la rete che governa il Pd, riconquistato dopo l'uscita di Renzi, è più o meno quella, con lo stesso Dna di un tempo, ma con un gruppo ridotto, una sorta di pro loco, pardon «pro Italiani Europei», la fondazione di Massimo D'Alema. Un gruppo piccolo, ma potente specie nel secondo governo Conte, visto che si era formato un quadrilatero di potere niente male: il ministro dell'Economia Gualtieri, il ministro della Sanità Speranza, il ministro per i rapporti con l'Europa Amendola e, infine, il Commissario Arcuri. Eminenza grigia, ovviamente, D'Alema, ciliegina sulla torta Conte. Se non ci fosse stato quel guastafeste di Renzi, il nucleo avrebbe gestito la Pandemia e il Recovery plan. Un oceano di risorse. Eh sì, perché l'ideologia serve anche a conquistare il Potere. Al netto ovviamente, di tanti paradossi: 25 anni fa la Lega era per D'Alema una costola della sinistra e il Cav il nemico da abbattere; ora Berlusconi è diventato l'oggetto del desiderio della maggioranza Ursula, mentre la Lega salviniana il nemico da far fuori.
Uno schema che la scelta di Salvini di entrare in gioco ha fatto saltare, facendo emergere le due anime dentro il Pd. Gli eredi del Pci puntano a tenere il «nemico» del momento fuori dalle mura del Governo Draghi, l'anima democristiana (da Mattarella, a Franceschini a Delrio) ad assorbirlo. Aldo Moro convertì i padri dei vari Zingaretti, Orlando, Bettini, al confronto e al dialogo; più o meno come ora Mattarella e, chessò, Delrio, sperano di convertire i sovranisti all'europeismo. Per cui l'atteggiamento degli ex di tante cose non può non far arrabbiare gli eredi dei democristiani e dei popolari. Giovedì sera, dopo che la minaccia dell'appoggio esterno era cominciata a circolare, Graziano Delrio è andato su tutte le furie: «Ancora non gli è bastata?! Vogliono ancora seguire la linea Bettini?! Vogliono ancora inimicarsi di più Mattarella?!».
E già, Delrio ha il dente avvelenato. Perché, secondo il costume di un tempo, in questa crisi è stato costretto dal vertice del Pd «ad abiurare, a disconoscere, a porre un veto personale come ai tempi del Politburo, contro me che lo consideravo un fratello» ha raccontato lo stesso Renzi. Un'altra pratica sopravvissuta all'ideologia di quel tempo nel Dna di oggi. Ormai è storia: Napolitano fu costretto a pronunciare la requisitoria contro il suo padre putativo, Antonio Giolitti, che abbandonò il Pci dopo l'invasione sovietica dell'Ugheria; Pietro Ingrao fu spinto a votare per l'espulsione dei suoi seguaci che poi diedero vita al Manifesto.
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