Telefonata di fuoco col premier danese

Le mani degli Usa sulla Groenlandia

Telefonata di fuoco col premier danese
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Donald Trump ha insistito sulla serietà della sua intenzione a prendersi la Groenlandia in un'infuocata telefonata con la prima ministra danese. Lo hanno riferito alti funzionari europei al Financial Times. La scorsa settimana il presidente americano avrebbe parlato con Mette Frederiksen per 45 minuti durante i quali quest'ultima avrebbe ribadito che la più grande isola al mondo «non è in vendita». Già martedì scorso, dopo le dichiarazioni del presidente Trump che ha aveva di nuovo ribadito di voler prendere il controllo della Groenlandia, le reazioni non si erano fatte attendere. Il primo ministro groenlandese Mute Egede aveva dichiarato che il territorio autonomo danese non vuole diventare americano. «Siamo groenlandesi, non vogliamo essere americani; non vogliamo nemmeno essere danesi. Il futuro della Groenlandia sarà deciso dalla Groenlandia e insisto sul fatto che il futuro della Groenlandia sarà deciso dalla Groenlandia», ha detto Egede. Mentre, sempre martedì, un eurodeputato danese aveva respinto le intenzioni del tycoon con parole meno eleganti: «La Groenlandia non è in vendita, Trump vada aff...».

Trump ha già parlato delle «mire espansionistiche» che gli Usa avrebbero anche sul Canada («mi piacerebbe che fosse il 51esimo Paese degli Usa» ha detto) e sul Canale di Panama. Nel suo discorso inaugurale, Donald Trump ha gettato sul piatto delle relazioni internazionali un argomento inaspettato, che aveva però già usato in campagna elettorale: il Canale di Panama e l'importanza che esso ha per il commercio mondiale. L'abbiamo dato a Panama, non ai cinesi, ha detto il 47esimo presidente con la sua consueta disinvoltura, e ce lo riprenderemo. Negli ultimi anni, Panama era entrata nel cono di attenzione dei media mondiali soprattutto per questioni legate al cambiamento climatico.

Nel 2023, a causa di una prolungata siccità, il canale aveva raggiunto uno dei minimi storici di profondità. Questo aveva procurato una riduzione consistente degli attraversamenti, con costi crescenti per gli armatori. E ciò mentre a Oriente esplodeva la crisi del golfo, dovuta all'instabilità politica dello Yemen.

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