Molto è stato fatto, ma molto resta da fare, sospiravano i ministri democristiani della Prima Repubblica per cavarsi da impaccio in ogni situazione. «Le prossime settimane saranno complesse», ha sentenziato ieri Giuseppe Conte con analogo afflato di acquafreschismo. Il premier si sente un po' l'erede di quel ceto politico cattolico, centrista e meridionale che ha governato l'Italia per decenni. La propensione ad intortare l'uditorio con circonlocuzioni spericolate con tante parole e pochi contenuti, la recente scoperta di passerelle e tagli dei nastri, meglio nella sua Puglia. Ma per essere un parvenu della politica sta dimostrando insospettate doti di grande logoratore degli alleati e dell'opposizione, cui promette sempre obbedienza o coinvolgimento lasciando sempre tutti a secco. Da giorni lascia filtrare a bella posta la sua volontà di volere evitare un lockdown generale che l'intero Paese non sarebbe più in grado di sostenere o tollerare. In realtà, però, riesce a mantenersi in equilibrio facendo ricadere il lavoro sgradevole sulle spalle altrui. Prima lo scaricabarile sui sindaci per le misure anti movida, poi l'assistere alla partenza in quarta delle Regioni nell'imposizione di coprifuoco e restrizioni di ogni tipo.
Quando tocca a lui, ecco l'abilità dell'avvocato di affari nel tornire il cavillo giuridico e lessicale per trarne il massimo vantaggio. Il governo Conte dopo il lockdown di marzo è riuscito a introdurne ora uno virtuale. Non restiamo (per ora) chiusi in casa per settimane, ma il contesto attorno a noi resta quello lugubre della scorsa primavera. Un restringimento di attività e di negozi che ci fa ripiombare nell'incubo già vissuto che volevamo lasciarci presto alle spalle. Liberi sì, ma di fare cosa? Psicologicamente siamo già caduti nella sindrome di Conte, astuto manipolatore di comportamenti di massa. Lontani da nonni e genitori anziani, inchiodati a uno smartworking che svuota grattacieli, quartieri e uffici pubblici. Frastornati da un domani che non indica nulla, neppure un weekend fuori porta per vedere una mostra o dedicarsi a programmi natalizi.
Il lockdown virtuale è fissato inizialmente fino al 30 novembre, praticamente dopodomani. Facile immaginare che sarà prorogato per stabilizzare i logici miglioramenti sul numero dei contagi. E si arriva appunto a Natale dove sarà meglio per tutti evitare bagni di folla a casa e nelle vie cittadine. Poi in un balzo si giunge al fatidico 31 gennaio, data di scadenza dello stato di emergenza che ci ricorda l'eccezionale gravità del momento. Volete mica che il primo febbraio si torni in massa negli uffici mentre il freddo ci terrorizza con bronchitelle e starnuti che ci fanno sentire automaticamente contagiati?
Sarà un attimo arrivare al ponte pasquale del 4 aprile, dove ci sarà senz'altro impedito di riprendere normalmente le nostre vite. E così si giunge al periodo compreso tra le festività del 25 aprile e dell'1 maggio in cui ci sarà nuovamente chiesto di non vanificare gli auspicabili risultati colti nel contenimento del Covid.
Coraggio italiani, quest'anno rivivremo la drammatica manfrina di inizio 2020 con largo anticipo sul 2021. Magari il lockdown non si ripeterà più, ma ormai ci siamo dentro fino al collo. La tentazione di acquistare qualche scatoletta di tonno in più, la paura di ammalarsi lontano da casa, la rinuncia a qualsiasi tipo di uscita o di socialità. Potremo lavorare (non tutti) e uscire in orari di coprifuoco (chi può).
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