Manson, il figlio del diavolo che uccise l'America hippy

Musicista fallito e uno dei più efferati killer d'America La sua setta omicida insanguinò l'estate del 1969

Manson, il figlio del diavolo che uccise l'America hippy

Un altro pezzo tossico del Novecento se ne va. È morto domenica a Bakersfield, dopo una breve agonia per un'emorragia intestinale, Charles Manson, uno dei più grandi criminali del secolo della follia. In due giorni dell'estate del 1969 con una banda di giovani da lui manipolati, mise in fila una tale sequela di orrori ed efferatezze bastevoli per molte vite e per molti ergastoli. Lui ne ha fatto uno, 42 anni di carcere, ma solo perché la condanna a morte che gli era stata comminata fu sbianchettata da un destino beffardo, che provvide ad abolire in California l'esecuzione capitale, facendo di Manson e dei suoi adepti dei morti viventi.

Una morte banale e una vita delirante, quelle di Manson, nato a Cincinnati, in Ohio, il 12 novembre 1934, e cresciuto senza padre e con una madre sbandata. Una lunga gavetta da criminale da strapazzo, con furti, rapine, aggressioni, fermi e fughe, Poi il salto di qualità con lo studio della negromanzia, dell'esoterismo, lo sviluppo della capacità di condizionare e manipolare le menti di cristallo. Il sogno di diventare un musicista hippy, la passione per i Beatles, i contatti con Dennis Wilson dei Beach Boys che naufragarono nel fallimento e nella paranoia di essere stato tradito da Wilson, che avrebbe rubato e riarrangiato un suo brano. Da qui il rancore trasformatosi in odio verso chi ce l'aveva fatta, a diventare famoso. Manson divenne il burattinaio di un gruppo di giovani deboli e balordi. La chiamava la famiglia, o la famiglia Manson: erano sciacquette dai nomi banali: Mary, Patricia, Susan, Sandra, Leslie. Ragazze carine, cervelli da riempire di idee balzane. Poi si unirono altri. Giravano per gli States liberi e selvaggi dell'epoca a bordo di un pulmino dipinto di nero, stordendosi di sesso e di droghe, ci volle poco perché il gruppo di hippy si trasformasse in una specie di setta governata dagli occhi magnetici e dalle parole subdole di Charles. Che riuscì a dare a quel gruppo di disadattati un obiettivo con una data e un luogo: 9 agosto, Cielo Drive. È, quest'ultimo, un ricco sobborgo di Hollywood dove sorgeva una villa che per Manson era il simbolo di tutto ciò che lo ricacciava nell'anonimato, nell'abiezione. A quell'epoca la dimora era abitata dal regista Roman Polanski e della moglie Sharon Tate, all'ottavo mese di gravidanza. Polanski era lontano, stava girando Rosemary's Baby, e Sharon si era circondata di amici: Abigail Folger, il di lei fidanzato Voityck Frykowski, il parrucchiere Jay Sebring. Non c'era però chi Manson pensava e voleva ci fosse, quel Terry Melcher proprietario della villa, produttore musicale che aveva rifiutato le sue canzoni. Manson mandò i suoi uomini e le sue donne a sterminare tutti: cinque morti accoltellati, anche Sharon Tate, e uno dei carnefici, la Atkins, che scrisse «pig» con il suo sangue per indicare le farneticanti colpe dei morti: maiale in inglese.

La famiglia Manson non si fermò e il giorno dopo i giovani posseduti dai demoni di Charles uccisero anche l'impreditore Leno LaBianca e la moglie Rosemary a colpi di forchetta e forchettone, anche in quel caso fu scritto su un muro: morte ai maiali. E maiale doveva essere anche Gary Hinman, che aveva ospitato e poi sfrattato la «family»: via anche lui. Come morì Donald shea, un membro della setta, colpevole di aver sposato una nera. Fatto a pezzi.

Manson e i suoi furono incastrati dopo lunghi mesi di angoscia, processati e condannati a morte il 29 marzo del 1971.

Poi la commutazione della pena. E la seconda vita di Manson in carcere, ogni tanto una richiesta di libertà vigilata, ogni volta respinta. Manson era l'anima nera dell'America falsamente ingenua. Lui è morto, lei sopravvive.

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