Il marketing del dolore che sfrutta pure la guerra

Che a Gaza, o a quel che resta di essa, siano stati commessi crimini di guerra è ormai fuor di dubbio

Il marketing del dolore che sfrutta pure la guerra
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Che a Gaza, o a quel che resta di essa, siano stati commessi crimini di guerra è ormai fuor di dubbio.

La Striscia è stata rasa al suolo innanzitutto a causa di Hamas, che ha portato la morte in Israele con un attacco vigliacco il 7 ottobre scorso, e che se ne è poi fregato delle vittime provocate dai bombardamenti, spesso indiscriminati, di Tel Aviv e che ha evitato ogni tipo di accordo che potesse interrompere la guerra. I terroristi, infatti, vista anche la supremazia aerea dello Stato ebraico, hanno preferito rintanarsi nei loro famosi (e famigerati) tunnel in attesa di una tregua che, però, nessuno vuole davvero.

A oggi sono oltre trentacinquemila le vittime civili. Un numero che è destinato a crescere con il passare dei giorni. Guardare a Gaza, oggi, è giusto e sacrosanto. Il problema, però, è quando attorno a ciò che sta accadendo a Rafah vengono create campagne ad hoc non tanto per parlare della tragedia che oggettivamente c'è, ma per posizionarsi sui social o, peggio ancora, per fare quattrini.

Solamente qualche giorno fa, per esempio, è stato pubblicato un trend chiamato «All eyes on Rafah» (tutti gli occhi su Rafah), l'ultimo lembo di terra in cui si sono raccolti i civili in fuga dai bombardamenti israeliani. Un successo, visto che è stato condiviso da oltre quaranta milioni di persone. Che, nella maggior parte dei casi, non sa nemmeno cosa stia accadendo a Gaza, ma che lo ha fatto solo per moda. Perché stare con i palestinesi e contro Israele oggi funziona. Anzi: piace. È per questo che gli influencer di ogni latitudine si sono buttati a sostenere questa campagna: hanno capito che la maggior parte dei loro follower sostengono la causa palestinese. E questo nonostante non sappiano minimamente dove sia Gaza o quali siano realmente le cause di questo conflitto che, ormai, dura da quasi ottant'anni.

Ma non solo: ci sono anche aziende che hanno deciso di sfruttare la tragedia del popolo palestinese con mirate azioni di marketing. Se, per esempio, si sfogliano le pagine social di alcuni importanti brand americani che vendono vestiti si vedono sempre più capi aventi come fantasia le angurie. Come mai? Perché, dallo scorso 7 ottobre, questo frutto è stato usato come alternativa alla bandiera palestinese in quanto ha i suoi stessi colori: nero, rosso e verde. Ma non solo. Anche alcune aziende che producono spazzolini e dentifrici hanno iniziato a usare come fantasia le angurie e uno dei gioielli più diffusi all'interno dei campus americani è un orecchino a forma di questo frutto. È così che funziona il marketing del dolore.

Ci si butta a mercificare una tragedia terribile, senza comprenderla minimamente, per ottenere il consenso di una comunità e, quindi, spingerla a nuovi acquisti.

Ma non c'è nulla di più drammatico di lucrare sulla sofferenza di un popolo che muore. Soprattutto se a farlo sono coloro che dicono di sostenere la causa palestinese, mentre invece vogliono solo ripulirsi la coscienza. O vendere qualche maglia o spazzolino in più.

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