«Speriamo si arrivi alla fine», aveva detto il papà di Martina entrando ieri sera in Cassazione. E la «fine» è arrivata. «Condanne a tre anni confermate». Dopo 11 anni. Un'attesa troppo lunga per chiamarla davvero «Giustizia»; ma questa è la deprimente regola nei tribunali italiani. La Suprema corte era chiamata a ratificare definitivamente una verità che, per troppo tempo, è stata appannata da dubbi e, addirittura, ribaltata da una sentenza assolutoria. Verdetti paradossalmente contraddittori. Ora l'ultimo giudizio di terzo grado ha smantellato l'ipocrita del dogma virtuoso «dialettica processuale»: Martina Rossi, la studentessa morta il 3 agosto 2011 in Spagna precipitando dal balcone di un hotel, fece quella fine tragica «nel tentativo di sfuggire a uno stupro». Parole che fanno male, pur avendo il merito di diradare, una volta per tutte, la coltre di nebbia che ha avvolto dal 2011 il dramma della 20enne genovese in vacanza a Lloret de Mar. «C'è stata una catena di errori, la controparte è riuscita a far passare tanto tempo», hanno ricordato i genitori della vittima, Bruno Rossi e Franca Murialdo. Sul banco degli imputati, oggi come allora, Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni, entrambi 30enni di Arezzo, condannati lo scorso 28 aprile a 3 anni per tentata violenza sessuale nel processo di appello bis a Firenze; sentenza sulla quale ieri si sono espressi i giudici della quarta sezione penale del Palazzaccio, confermando la pena. I due imputati dovranno scontare la pena in carcere. Ma rimarranno in galera per tutto il periodo previsto dalla sentenza? In teoria sì, in pratica è probabile che escano ben prima dei tre anni. Gli ermellini si erano già espressi sulla vicenda annullando il 21 gennaio scorso la sentenza di assoluzione decisa nel giugno 2020 dalla Corte d'appello di Firenze, con la formula «perché il fatto non sussiste». «Rigettare i ricorsi di entrambi gli imputati e confermare le condanne» la richiesta del pg di Cassazione; poi, il fulcro della sua requisitoria: «Quello di Martina Rossi non fu un suicidio ma il tentativo di fuggire a una violenza di gruppo come stabilito dalla Corte d'appello di Firenze». La pg si è soffermata in particolare sulla qualificazione del reato: «violenza sessuale di gruppo e non in concorso». Per la pg è giusta la ricostruzione che vede «la compresenza» dei due imputati nella stanza d'albergo di Palma di Maiorca, che «ha influito negativamente sulla reazione di Martina, la quale si è sentita a maggior ragione in uno stato di soggezione e impossibilitata a difendersi». Motivo per cui la ragazza avrebbe scelto una via di fuga «più difficile (che la metteva in pericolo) e non di uscire dalla porta»; l'attimo fatale viene ricostruito così: «Martina scavalca la balaustra, ma non si getta con intento suicidiario». Altri elementi evidenziati dalla pg sono stati «alcune lesioni sul corpo di Martina oltre a quelle riconducibili alla caduta dal terrazzo e i graffi sul viso di uno dei due imputati».
Fuori dalla Cassazione un sit-in contro i femminicidi; tra gli striscioni esposti in piazza, uno diceva: «Verità su Martina: non è stato suicidio, è stato stupro». Una «verità» che ora - a un passo dal rischio di una vergognosa prescrizione - rende onore a Martina e alla sua famiglia.Finalmente.
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