«Pericolose per la salute». Le mascherine che in piena pandemia erano state acquistate in Cina dall'ex commissario Domenico Arcuri per il tramite di alcuni intermediari che su quegli ordini hanno poi ottenuto dai cinesi provvigioni milionarie, sono state sequestrate su richiesta della Procura di Roma. Lo stesso Arcuri, che è indagato per peculato e abuso d'ufficio, è stato interrogato nei giorni scorsi dai pm capitolini: «Un confronto - si legge in una nota diffusa dall'ex commissario - e un chiarimento che si auspicava da molto tempo con l'Autorità giudiziaria, rispetto alla quale sin dall'origine dell'indagine Arcuri ha sempre avuto un atteggiamento collaborativo, al fine di far definitivamente luce su quanto accaduto».
L'indagine per traffico di influenze illecite aveva svelato come a guadagnare sulla maxi commessa da 1,2 miliardi di euro per 800 milioni di mascherine acquistate tra marzo e aprile 2020 dall'allora struttura commissariale da tre aziende cinesi, sarebbero stati alcuni intermediari tra cui il giornalista Mario Benotti, il consulente Andrea Vincenzo Tommasi, e l'ecuadoriano Jorge Solis.
Le provvigioni per 62 milioni di euro sarebbero il frutto, secondo i pm, di un'attività di «mediazione occulta» non giustificata da alcun rapporto professionale nei confronti della struttura commissariale, ma basata su conoscenze dirette. Benotti secondo l'accusa, «avrebbe concretamente sfruttato la personale conoscenza con il commissario Arcuri».
Al giornalista viene contestata anche la frode in pubbliche forniture. Quei dispositivi, mascherine chirurgiche, Ffp2 e Ffp3 o Kn95, scrivono nel decreto di sequestro i pm Fabrizio Tucci e Gennaro Varone, «in gran parte non soddisfano i requisiti di efficacia protettiva richiesti dalle norme». Non solo, alcuni lotti sono stati giudicati «pericolosi per la salute». Potrebbero essere finiti a medici e infermieri nel momento più difficile dell'emergenza Covid. Dopo che già 100 milioni di mascherine erano state sequestrate dalla Procura di Gorizia i pm romani hanno chiesto il sequestro di tutti i pezzi in giacenza nei magazzini delle regioni o della Protezione civile.
Ma come è stato possibile distribuire mascherine potenzialmente pericolose? Secondo i pm «una considerevole porzione dell'intera fornitura» sarebbe stata validata «sulla base della sistematica sostituzione dei test report, che sono risultati a volte non riconducibili all'apparente istituto emittente, a volta incomprensibili per via della lingua, a volte in sé inidonei». Anche «la validazione» del materiale «ha quasi sempre seguito (e non anticipato) i pagamenti delle forniture. Cosicché Inail e Istituto di sanità a supporto del Comitato tecnico scientifico si sono trovati nella scomoda condizione di dover sconfessare pagamenti con denaro pubblico già erogati».
I magistrati stigmatizzano anche la giustificazione del «momento di emergenza» alla base di «un operato meno rigoroso» e di acquisti forzosi «pur di non lasciare la popolazione sanitaria sprovvista di tutela». Perché, continuano i pm, «dichiarare protettivo» un dispositivo non idoneo «può indurre esposizioni sanitarie avventate». Del resto la stessa «la parola emergenza» in tutta questa vicenda «è stata spesa molto, ma anche in modo non coerente - rilevano i magistrati -. Ha giustificato pagamenti di dispositivi di protezione, della qualità dei quali nulla ancora si sapeva, col rischio di acquistarne di inutili». E al tempo stesso però sarebbe stata respinta «ogni altra offerta di chi richiedeva anticipazioni dei pagamenti, laddove il rischio di non ricevere merce appare equiparabile a quello di riceverne di inutile». Gli intermediari avevano sempre rivendicato come la commessa fosse vantaggiosa per via del pagamento non anticipato. Una versione che non regge per i pm.
Indagato per peculato anche il funzionario dell'ufficio acquisiti dell'ex struttura commissariale, Antonio Fabbrocini, che in quanto responsabile della procedura sarebbe stato anche un interlocutore degli intermediari. È estraneo invece all'altra inchiesta per traffico di influenze illecite che coinvolge l'avvocato Luca Di Donna.
Ma agli atti anche una sua mail con la quale comunicava da parte della struttura commissariale la revoca di ogni fornitura di mascherine a un imprenditore che avrebbe rifiutato la mediazione remunerata chiesta di Di Donna per interagire con gli uffici dell'ex commissario Arcuri. Anche lui estraneo all'indagine.
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