Milano. Non piove, sul bagnato. Anche in agricoltura la guerra sta determinando un aumento verticale dei costi che allarma l'intero settore. Gli effetti dell'attacco russo in Ucraina, si aggiungono all'impatto di una siccità spaventosa. Così, si va delineando uno scenario di crisi tale da minacciare la vita stessa delle imprese.
È il più importante ente italiano di ricerca agroalimentare, il Crea, ad aver calcolato gli effetti della guerra sui costi e sui risultati delle imprese. L'istituto di analisi vigilato dal ministero ha stimato che il 30% delle aziende possa avere reddito netto negativo, e in alcuni territori-chiave, come la Lombardia, la percentuale salirebbe addirittura al 49%, tanto che la Regione sta cercando di correre ai ripari con misure tampone, con l'assessore leghista Fabio Rolfi che ha già convocato un tavolo per il 31 marzo con tutti gli attori della filiera, e nel frattempo sta mettendo in campo degli interventi importanti, anche perché non piove praticamente da 4 mesi, e l'acqua disponibile si è ridotta dell'82%.
Il passaggio storico, ovviamente, era già delicato, ma l'agricoltura aveva patito meno di altri settori l'effetto del Covid e dei lockdown. Ora l'impatto della guerra si fa sentire per varie ragioni. Il Paese aggressore e quello aggredito sono due importanti produttori agricoli. Alla dipendenza italiana dall'estero, soprattutto per mais e girasole, si aggiunge il blocco delle esportazioni di fertilizzanti e cereali da parte di Russia, Ungheria e Bulgaria. Questi problemi, uniti ai mancati raccolti in Ucraina e alla penuria di mangimi, ora rischiano di determinare una vera e propria crisi alimentare.
Il Centro di politiche e bioeconomia del Crea ha calcolato l'aumento dei costi di produzione delle aziende agricole. Il risultato è di una gravità inaudita. L'indagine del Crea si è focalizzata su sei importanti voci di costo: fertilizzanti, mangimi, gasolio, sementi, prodotti fitosanitari, e costi servizi conto-terzi. In termini assoluti, l'impatto medio aziendale degli aumenti è di oltre 15.700 euro, ma con forti differenze per settore e localizzazione geografica. Nelle aziende che allevano granivori, potrebbe sfiorare i 100mila euro.
Ad essere penalizzati dai maggiori incrementi percentuali dei costi correnti (tra il 65 e il 70%) sono i seminativi, la cerealicoltura e l'ortofloricoltura, seguiti dai bovini da latte (+57%). Più contenuti invece gli aumenti per le colture arboree agrarie e per la zootecnia estensiva. A livello medio nazionale l'aumento dei costi si attesterebbe sul +54% con effetti molto rilevanti sulla sostenibilità economica delle aziende.
In totale, l'impennata dei prezzi pagati dagli agricoltori supererà i 9 miliardi. In termini assoluti, i maggiori incrementi si evidenziano nelle regioni settentrionali, in particolare in Lombardia ed Emilia-Romagna. Ma in percentuale, valori elevati si registrano anche al Meridione, con picchi ben superiori alla media nazionale.
Le stime evidenziano una riduzione rilevante nel reddito netto delle aziende agricole: dell'ordine del 60%, con un brusco aumento della percentuale di aziende con prospettive di reddito netto negativo: su base nazionale supererà il 30%, rispetto
al 7% del pre-crisi. In definitiva, la crisi può determinare in un'azienda agricola su dieci (l'11%) l'incapacità di far fronte al processo produttivo, mentre nel pre-crisi la percentuale era irrilevante, intorno all'1%.
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