Roma. E alla fine la mediazione di Sergio Mattarella ha prodotto il «punto di equilibrio». Metà politici e metà tecnici, perché secondo il capo dello Stato «il Parlamento non può essere commissariato completamente». Metà nuovi e metà uscenti, perché «in certi settori serve continuità»: Interni, Esteri, Difesa e anche la Salute per Speranza. Metà ministri buoni per tenere buone le segreterie innervorsite dalla perdita di potere, metà per scatenare gli effetti speciali di Mario Draghi, il necessario elettrochoc sull'economia e lo sviluppo. Insomma, secondo il Colle è stato quadrato il cerchio.
Mattarella è soddisfatto e ottimista, ma non è stato facile. Fino all'ultimo i contatti con i partiti li ha tenuti lui. Contatti turbolenti. Pretese da respingere, suppliche da raccogliere, unghie da spuntare, appetiti da deludere, suggerimenti da ascoltare con garbo e poi archiviare. «Presidente - questo è il succo delle tante telefonate - noi non sappiamo nulla, Draghi non ci ha spiegato come vuole formare la sua squadra, non accetta proposte o rose di nomi, non condivide le scelte. Capiamo il momento storico, però la politica non può essere tagliata del tutto fuori dalle prossime cruciali decisioni da prendere per il Paese».
Lamentele analoghe, insieme ai curriculum degli autocandidati, sono giunte pure al segretario generale Zampetti.
A tutti il capo dello Stato ha risposto nello stesso modo: Draghi non vuole aprire un mercato. Ha ricordato poi il fallimento del sistema dei partiti: «È colpa vostra». Ha spiegato, ancora una volta, la ratio che lo ha spinto a incaricare l'ex presidente della Banca centrale europea, un nome fortissimo, l'italiano più capace del momento, e cioè le tre emergenze che ci affliggono, sanitaria, economica e sociale, e la necessità di preparare in fretta, entro aprile, un piano di sviluppo ben fatto per ottenere i 209 miliardi del Recovery Fund, forse l'ultima occasione per evitare il baratro. E ha ripetuto la natura del mandato, un governo «di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica». Quindi, va da sé, le segreterie devono restare fuori.
I partiti però non l'hanno capito. O, se l'hanno capito, hanno fatto finta di no e hanno insistito per rientrare in partita. Una settimana di bombardamento, finché Mattarella l'altro giorno ha deciso di chiudere le comunicazioni e di mettersi a lavorare con Draghi alla lista. Si sono divisi i compiti. L'incaricato ha organizzato la parte tecnica della compagine, il Quirinale ha contattato i politici da arruolare, respingendo le aspirazioni dei leader che volevano entrare e aprendo ai numeri due, calcolando pesi e contrappesi, chiudendo ogni spiraglio di trattativa: decide Draghi, ovviamente di «concerto con il capo dello Stato, come prevede la Costituzione».
Nessuna apertura nemmeno sui dettagli del programma: «Ne parlerà il premier quando si presenterà alle Camere per ottenere la fiducia», questa la spiegazione. Prendere o lasciare. I partiti, spiazzati e sotto choc, alla fine hanno dovuto prendere. E per come si era messa, hanno pure ottenuto più del previsto.
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