L'ultimo rovescio finisce in rete per sfinimento. E a quel punto mentre guardi il tuo avversario che rotola felice nell'erba ti fai la domanda: davvero ho perso? No, Matteo Berrettini non ha perso, si è solo inchinato al rivale più impossibile, come si fa con i reali sul campo centrale di Wimbledon. Non poteva fare altro, non poteva fare tutto. Però ha vinto, quantomeno la sua scommessa: giocare alla pari con Novak Djokovic.
«Ho tanti sentimenti da gestire dice con il piatto del finalista in mano -, anche in questo lui è ancora meglio di me». Quasi gli scende una lacrimuccia in quell'espressione chiaroscura di uno che non sa se sorridere per un torneo incredibile o arrabbiarsi per l'occasione sfuggita. Ma forse l'occasione non c'è stata davvero, è stata una piccola illusione alimentata dal fatto di aver giocato alla grande. Di aver fatto il possibile, anche quando il possibile non basta. Gli applausi alla fine sono tutti per lui, «hai vinto il cuore di Wimbledon», gli dice Sue Baker nelle interviste di rito. Intanto.
Ci sono momenti in una partita di tennis dove il destino corre sul filo della rete. Il nastro, quello che prende Matteo nel quarto set in una palla che lo avrebbe portato a un punto dal break. Stava rincorrendo Sua Maestà, era l'ultima occasione per tornare in gioco. Praticamente una partita in un millisecondo e potrebbe non essere un caso che poi il punto invece lo fa Djokovic. È il sesto game, da lì tutto finisce. Sarebbe bastato un centimetro, ma quando succede poi ti mancano le forze. Mentre all'altro non mancano mai.
Non resta allora che tornare alla domanda iniziale: ma davvero Matteo ha perso? Chiudiamo gli occhi e ripensiamo alle ultime due incredibili settimane, ricordiamo il fatto che questa volta nell'ultimo giorno del torneo che vuole dire tennis c'era un ragazzo italiano. Riguardiamo gli occhi suoi e di tutti quelli che gli stanno intorno. No, Matteo non ha perso. «Io e il mio team abbiamo fatto una lunga strada fin qui. È solo l'inizio».
Che domenica questa domenica di Londra, ti viene un po' da piangere ma sai che dovresti solo festeggiare un giorno così. Riguardi il punteggio (6-7, 6-4, 6-4, 6-3) e maledici il fatto che negli anni pochi si ricorderanno di quanto Matteo si sia ribellato all'inevitabile. Lo dice anche Novak, e non per piaggeria: «Che battaglia che è stata, ne ho ancora i segni sulla pelle». Che emozioni.
Tutto poi corre veloce: Berrettini si dimentica pure che deve fare le foto prima di correre al microfono dell'intervista, si ride, si sorride, si mastica un po' amaro. Ma è il tennis, questo: alla fine della settimana vince uno solo.
Essere lì accanto a lui è già un'investitura, soprattutto se sei un ragazzo con la testa sulle spalle e un servizio che lascia il segno: «Sei proprio un martello», scherza Novak.E allora: com'è finita a Wimbledon? Matteo alla fine trova la risposta: «È stata una bellissima esperienza, mancava solo un passo in più. Continueremo a provarci». Grazie, per ora.
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