Meloni non abbatte il muro Ue sui migranti. Il fastidio con la Lega sulle armi a Kiev e il patto sulla crescita

A metà mattina, nell'aula del Senato, Giorgia Meloni dosa e misura parole e tono di voce

Meloni non abbatte il muro Ue sui migranti. Il fastidio con la Lega sulle armi a Kiev e il patto sulla crescita

A metà mattina, nell'aula del Senato, Giorgia Meloni dosa e misura parole e tono di voce. Non vuole eccedere, né dare pretesti a chi in questi mesi l'ha accusata di una postura ancora ferma a quando era leader dell'opposizione piuttosto che da presidente del Consiglio. Così, le sue comunicazioni a Palazzo Madama in vista del Consiglio europeo di domani e venerdì scorrono pacate e senza accenni polemici da parte di Pd e M5s, nonostante le note tensioni tra maggioranza e opposizione seguite alla tragedia di Cutro dello scorso 26 febbraio. Solo in sede di replica la premier si accende in qualche passaggio, soprattutto quando risponde a chi non solo la dem Tatjana Rojc fa presente che quanto accaduto davanti alle coste della Calabria non può essere semplicemente derubricato a una sfortunata casualità («se 88 persone muoiono a 40 metri dalla riva, nulla è andato come doveva e ammetterlo è doveroso, quanto è doveroso evitare di insinuare che il governo abbia deliberatamente scelto di farli affogare», dice il leader di Azione Carlo Calenda). Così, mentre tutte le opposizioni alla Camera presentano formale richiesta di accesso agli atti a Palazzo Chigi, al Viminale, al ministero dei Trasporti e al Centro nazionale di coordinamento del soccorso in mare, Meloni ribadisce di avere «la coscienza completamente a posto» («io sono una madre», dice) e li accusa di «usare le morti della povera gente per fare propaganda». Su Cutro, insomma, si va cementando il muro contro muro di queste settimane, con chi sostiene il bianco da una parte e il nero dall'altra.

Ed è proprio il capitolo migranti quello con cui la premier apre le sue comunicazioni. Un dossier che ha trovato molto spazio ieri in Senato ma che almeno stando all'ordine del giorno provvisorio aggiornato a ieri a Bruxelles sarà toccato solo velocemente nelle cosiddette «varie ed eventuali» («5. Altri punti», recita l'odg). Non è infatti negli argomenti espressamente in agenda, a differenza dell'Ucraina, dell'economia o dell'energia. Tanto che il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, parla solo di uno «short debrief on the matter» (un breve resoconto sulla questione). E pure nelle bozze di conclusioni del Consiglio che circolavano ancora ieri sera al tema migranti sarebbe riservata solo qualche riga. Niente di più. Perché l'Ue Francia e Germania in testa ritiene sufficienti le misure adottate a febbraio e domani non dovrebbe andare oltre una semplice valutazione dello stato dell'arte. Come annunciato dalla lettera inviata lunedì sera da Ursula von der Leyen (che ieri ha nuovamente sentito al telefono Meloni) ai capi di stato e di governo dell'Ue. Una missiva che è certamente una vittoria politica per la premier, ma che non porterà ad alcuna novità operativa o normativa sul fronte comunitario. Meloni, però, sulla questione insiste a lungo. Perché, spiega, «siamo di fronte a una emergenza che sta diventando strutturale». Poi affonda sulle Ong. «Gli Stati di bandiera» devono essere «pienamente coinvolti nelle operazioni Sar e assumersene la responsabilità che il diritto del mare attribuisce loro». Parole che difficilmente non hanno come destinatario Berlino, visto che una quota importante delle navi Ong impegnate nel Mediterraneo battono bandiera tedesca.

Poi, un accenno al fatto che «il tempo dell'austerità è finito». E che «le vecchie regole del Patto di stabilità sono ormai irrealistiche» e «l'unico obiettivo da perseguire per rendere il debito pubblico sostenibile è la crescita». Ma l'altro capitolo corposo è quello sull'Ucraina. Uno dei punti principali in agenda a Bruxelles. Su cui Meloni conferma e rivendica con coerenza la sua posizione, incassa il via libera sulla risoluzione di maggioranza ma deve fare i conti con i distinguo della Lega. Non casuali né dal sen fuggiti, ma snocciolati con toni più sentiti dell'ultima volta dal capogruppo del Carroccio Massimiliano Romeo durante il suo intervento in Senato. Se Meloni ribadisce con forza la «necessità di garantire legittima difesa a una nazione aggredita», la Lega gioca sul filo dei distinguo. Vota, ci mancherebbe, la risoluzione. Ma mentre Meloni evoca un «basta menzogne» riferito a chi sostiene che l'invio di armi sottragga risorse al sociale o alla sanità, Romeo gioca sul doppio binario. Ed evoca il «rischio di una escalation» continuando a «dare armi più potenti» a Kiev. Un distinguo che rimbomba nell'aula del Senato tanto è evidente la distanza rispetto alle parole pronunciate da Meloni solo pochi minuti prima. Un posizione che in Fdi derubricano a «normale interlocuzione», ma che a Palazzo Chigi non gradiscono affatto. E che spiegano in Lega ha un obiettivo ragionato. «Salvini ha voluto mandare un segnale per mettere in chiaro che non vogliamo un settimo decreto con invio di ulteriori armi», spiega chi ha avuto occasione di parlare con il vicepremier. Parole, certo. Perché come dice la premier Romeo «sembrava uno del M5s», visto che proprio il Movimento è stato durissimo con Meloni sull'invio di armi a Kiev.

Non è un caso, che nel suo intervento e pure nella replica la premier abbia deciso di affondare i colpi proprio su Giuseppe Conte (non solo sulle spese militari, ma pure su un fuorionda del 2019 dell'allora ex premier che a Davos in compagnia di Angela Merkel). E oggi si replica alla Camera.

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