Non solo l'Italia, ma tutti i leader del G7 ritengono «ancora possibile» una «soluzione diplomatica» della crisi in Medio Oriente. Questo si sarebbero detti i Sette grandi, che ieri pomeriggio si sono riuniti in una conferenza telefonica convocata d'urgenza da Giorgia Meloni, presidente di turno del G7. I capi di Stato e di governo di Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti (unico assente Emmanuel Macron che, impegnato al Berlin global dialogue, è stato rappresentato dal ministro degli Esteri Jean-Noel Barrot) hanno ribadito la condanna dell'attacco iraniano contro Israele e si sono detti d'accordo sul «lavorare per favorire una riduzione delle tensioni a livello regionale», a partire «dall'applicazione della Risoluzione 2735» del 2024 (per il cessate il fuoco a Gaza) «e della Risoluzione 1701» del 2006 (per la stabilizzazione del confine israelo-libanese).
Un approccio forse ottimistico - almeno a oggi - ma che fa parte delle regole d'ingaggio della diplomazia, soprattutto in un momento dove l'effettiva evoluzione della crisi appare legata a questioni regionali, contingenti e poco prevedibili. Ovviamente lo sanno bene anche tutti i leader presenti ieri alla conference call, a partire dal presidente americano Joe Biden che ci ha tenuto a precisare pubblicamente che la Casa Bianca «non sosterrebbe un attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani». In verità, gli input diplomatici arrivati da Washington a Roma raccontano di un Biden pronto a non ostacolare un'eventuale reazione di Tel Aviv contro Teheran (anche con obiettivi industriali) in caso di una possibile escalation conseguente a una risposta israeliana all'attacco missilistico di martedì sera.
Insomma, al netto dell'auspicio su un'improvvisa svolta diplomatica, la verità è che nelle diplomazie occidentali si respira un'aria di grande preoccupazione. Perché gli eventi futuri sembrano molto legati a logiche regionali del Medio Oriente, perché gli Stati Uniti sono sostanzialmente paralizzati in attesa dell'esito delle presidenziali del 5 novembre e perché la Russia di Vladimir Putin ha interesse ad alimentare il conflitto per distogliere l'attenzione da quello in Ucraina. Un mix esplosivo.
Non è un caso che nelle audizioni davanti alle commissioni congiunte di Difesa ed Esteri di Camera e Senato, i ministri Guido Crosetto e Antonio Tajani non abbiano esitato a parlare di «drammatica escalation». Concetto su cui ieri, aprendo il Consiglio dei ministri, è tornata Meloni. Che non ha nascosto la «profonda preoccupazione per gli sviluppi in corso».
Che potrebbero avere ripercussioni anche sui 1.200 militari italiani impegnati in Libano nella missione Unifil, che con le regole d'ingaggio di peacekeeping (solo difesa e monitoraggio del territorio) potrebbero avere grossi problemi in uno scenario di guerra come quello attuale. Questione su cui Crosetto sollecita per iscritto le Nazioni Uniti da almeno sei mesi, tanto che ieri il ministro della Difesa ha detto che l'Italia è «pronta a esfiltrare i connazionali» (i 3.200 civili italiani sono già stati invitati a lasciare il Paese). Gli assetti aerei e soprattutto anfibi nei pressi del Libano consentirebbero infatti un'operazione di evacuazione lampo in 24-48 ore massimo (ma lasciando del materiale sul campo) oppure un rientro ordinato dei militari in circa due settimane.
È chiaro, però, che - anche politicamente - l'Italia non può decidere un rientro unilaterale da una missione sotto l'egida Onu. E, peraltro, a Palazzo Chigi - come avrebbe fatto notare anche la Casa Bianca - ritengono che senza la presenza delle Nazioni Unite la situazione sul campo può solo peggiorare. È per questo che Meloni sollecita un «rafforzamento del mandato della missione Unifil», così che i contingenti in Libano siano in grado di muoversi. All'Onu, dice Tajani, abbiamo chiesto di «rendere più efficace il mandato della missione». Non come adesso, visto che con dotazioni e regole d'ingaggio di solo peacekeeping (sostanzialmente di controllo) il contingente Unifil (di cui l'Italia è primo contributore) è di fatto costretto a chiudersi nei bunker antiaerei.
Tajani, però, esclude un ritiro dei Caschi blu che, assicura, resteranno al loro posto.
Anche se un aggiornamento delle regole d'ingaggio avrebbe bisogno di tempo. E di un via libera del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove tra i cinque membri permanenti con diritto di veto non siede solo la Cina ma anche la Russia.
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