Se n'è andato consegnando due cerini ardenti a maggioranza e opposizione. Nel centrosinistra è già in corso un regolamento di conti sul federatore che non c'è nemmeno all'orizzonte, ma non importa. A destra, la questione è più sottile e riguarda la lotta all'evasione. Qualcosa si è capito nelle scorse settimane quando è esplosa la lite fra il viceministro Maurizio Leo, un tecnico prestato alla politica sotto il cartello di FdI, e Salvini. Leo infatti aveva inviato 685 mila lettere ad altrettante partite Iva che avevano dichiarato meno di 15 mila euro nel 2023. Troppo poco? Il messaggio invitava a controllare con attenzione i propri redditi ed eventualmente ad aderire in corsa al concordato preventivo che si è chiuso 48 ore fa, il 12 dicembre.
«Tu intimidisci il contribuente», l'ha apostrofato il capo della Lega. «No, collaboriamo», ha risposto Leo che evidentemente non vede di buon occhio le rottamazioni care al ministro delle infrastrutture. E prova a rovesciare il paradigma: non sanare in qualche modo, a colpi di condoni, quel che non si è pagato, ma anticipare, prevenire, spingere a versare quel che si deve sul filo di lana delle scadenze.
Qualcuno dice che Leo abbia agito come longa manus di Ruffini che, andandosene, si è tolto, come si dice, qualche sassolino dalla scarpa: «Lascio l'Agenzia delle entrate - queste le sue parole al Corriere della sera - ora la lotta all'evasione sembra una colpa».
Salvini ha replicato ieri con una frase che è una frustata: «A Ruffini auguriamo le migliori fortune, ma ben lontano dai portafogli degli italiani». Quasi marchiando il direttore uscente come una mano lesta.
Ruffini, nella conversazione con il Corriere, descrive un clima pesante di demonizzazione del suo ruolo: «Non mi era mai capitato di vedere pubblici funzionari essere additati come estorsori di un pizzo di Stato. Oppure di sentir dire che Agenzia delle entrate tiene in ostaggio le famiglie, come fosse un sequestratore».
Torna la domanda di fondo: da che parte sta il Governo? Il duello Salvini Ruffini per interposto Leo sottolinea una faglia che dovrebbe essere colmata. Nel suo libro La versione di Giorgia, scritto con Alessandro Sallusti, Giorgia Meloni è netta sul punto: «L'opposizione si straccia le vesti, accusandoci di improbabili condoni, di aiutare furbi e evasori, e chi più ne ha più ne metta. Ma mentono. Noi semplicemente partiamo da un principio di buonsenso: se hai dichiarato quello che dovevi al fisco, ma poi non hai pagato, è ragionevole ritenere che il tuo intento non fosse evadere, altrimenti non avresti proprio dichiarato».
Insomma, se uno è in buonafede e si trova in difficoltà, il Governo non si volterà dall'altra parte: «Ne devo dedurre - prosegue la premier, incalzata dal direttore del Giornale - che hai avuto problemi a pagare, e trattandosi anche di anni complicati, dalla pandemia in poi, non posso escluderlo, oppure può essere che ti sei ritrovato con una dichiarazione infedele solo per via di quella giungla delle regole tributarie».
Fin qui massima comprensione: «Presumo che tu voglia pagare e non imbrogliarmi, quindi ti metto nella condizione di farlo». Perfetto, ma non finisce qui. «Dopodiché - aggiunge Meloni - ti faccio uno statuto del contribuente che ti tutela di più e metto in rete tutte le banche dati che ho. Allora, se capisco che mi stai fregando sarò molto più severa di quanto lo siano stati i miei predecessori».
Quella del presidente del consiglio, se letta in controluce, è una dichiarazione di guerra ai furbetti del fisco. In linea, almeno sul piano teorico, con la mossa di Leo per tagliare la strada ai potenziali evasori. Poi, come sempre, ci sono le eccezioni, i paradossi, le difficoltà del sistema. Soprattutto ci sono segmenti dell'elettorato che hanno aspettative diverse, talvolta inconciliabili.
Ruffini è ai titoli di coda,
intanto saluta rivendicando «un'evasione scesa del 30 per cento», l'esecutivo intanto cerca la quadratura del cerchio. Ridurre le tasse, non darla vinta a chi gioca a nascondino. Qualcuno, per forza di cose, rimarrà scontento.
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