Ho accompagnato mia figlia alla stazione di Rapallo. Siamo arrivati in anticipo e così abbiamo fatto due passi fino al Lungomare. Mi sono sentito molto pensionato milanese (naturalizzato), con una fondamentale differenza: i pensionati milanesi, gli anziani che venivano qui, adesso molto meno, a svernare - cioè a trascorrervi l'inverno, sia climatico che esistenziale - lo facevano per scelta. Si erano comprati, spesso con grandi sacrifici, la casetta in Riviera, nella città più «rapallizzata», con più condomini. La stessa casa che i loro figli e nipoti hanno schifato, preferendo al canonico mese di vacanza una settimana in luogo più esotico, da Ibiza a Miami, per chi ha qualche dollaro in più. Ai tempi del coronavirus o Covid-19 la casetta è tornata di moda e molti sono fuggiti qua, prima che chiudessero le frontiere, prima che l'Appennino tornasse confine, muro, come ai tempi della Superba.
Io, invece, vorrei tornare ma non posso. Ho accompagnato mia figlia all'Intercity delle 11.41 per Milano. Pochi passeggeri, carrozze quasi vuote. Lei mi ha salutato dal finestrino. Poi il treno si è mosso e sono rimasto qui. Lei è andata a raggiungere il resto della mia famiglia a Milano. Purtroppo appartengo a una categoria a rischio. In parte perché la sfiga ci vede benissimo: ho un rene solo, l'altro se n'è andato per ragioni indipendenti dalla mia volontà. In parte per ragioni molto dipendenti dalla mia mancanza di volontà. Idealmente sto più con la «signora del Sacco», come l'ha definita la viro-star Burioni, cioè Maria Rita Gismondo. Questa è poco più di un'influenza, ma a quelli come me, sul limitare dell'età di chi dovrebbe chiudersi in casa, secondo i governanti di ogni ordine e grado, ogni non consigliano il vaccino contro l'influenza «perché, con le tue patologie...». Dovevo tornare a Milano, festeggiare il compleanno di mio figlio e il mio e poi tornare in Liguria. Invece sono rimasto qui, separato dal resto della mia famiglia. Magari, poi, non mi facevano più uscire.
In questi giorni si è sempre fatta la contabilità dei contagiati, dei morti, di coloro che combattono il virus in prima linea, degli anziani, dei segretari di partito e dei governatori con la mascherina, degli assessori che continuano a lavorare da casa «per il bene della collettività», degli esercizi in difficoltà, perfino dei single. Ma nessuno si è cimentato con la contabilità dei sentimenti dei separati come me, aggrappati a un video di Whatsapp per colmare le distanze. Di quelli che sono da una parte del muro e di quelli che sono dall'altra. Il muro non è solo un confine artificiale, è qualcosa che ti entra dentro e ti condiziona. Io non avevo paura della malattia, me l'hanno fatta venire considerandomi colpevole per non averne. Così, senza curarsi dei miei sentimenti, mi hanno costretto all'esilio. Senza una ragione fondamentale come ce l'ha chi combatte per contrastare il contagio, chi sta negli ospedali, chi è malato, chi deve mandare avanti la cosa pubblica. In questi giorni si è parlato e scritto su tanti aspetti di questa vicenda, ma poco sui sentimenti di chi vive sulla sua pelle la solitudine e la separazione.
Mentre il treno si portava via mia figlia, ho pensato che sarei dovuto partire con lei, fregandomene degli appelli, degli obblighi
e dei decreti del governo di Giuseppi. Non avete saputo fermare il contagio e mi trattate da untore condannandomi alla lontananza che, come cantava Modugno «fa dimenticare chi non s'ama». Ma io qualcuno da amare ce l'ho.
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