Giorgio Carra, giornalista, 39 anni, 5 giorni fa è scomparso suo padre Enzo, portavoce Dc alla fine degli anni Ottanta.
«Sono stordito. Nell'ultimo anno aveva avuto problemi, ma niente faceva presagire un precipizio così rapido. Avevamo un biglietto per andare insieme a Torino nel giorno in cui è stato male. Quelle trasferte, forzate, erano alla fine anche il modo per stare insieme».
Com'era Enzo Carra privato?
«Acuto, originale, vulcanico. Amava le battute. Spesso avevamo idee differenti ma dicono che siamo uguali. Si arrabbiava a volte ma era dolce, generoso, ho appena scoperto che aiutava un ragazzo della parrocchia, africano, a fare la tesi. Colto, era abbonato a due teatri, leggeva sempre. Quando ha avuto la crisi, gli avevo portato lo zainetto con i-pad e cellulare per leggere. Era una biblioteca vivente. Amava la politica e conservava molte amicizie. Gli chiedevano consigli, la politica per lui era visione».
Che idee aveva?
«Era e restava un giornalista, notista politico del Tempo, poi portavoce Dc, non deputato, quello dopo, con la Margherita, nel 2011. Era profondamente credente, ma aveva idee molto moderne».
La foto del suo arresto in catene è rimasta nella storia.
«Avevo 9 anni. Quella foto è l'emblema di come non devono andare le cose. Poche settimane prima era stato arrestato Riina, che se la rideva, non certo con quegli schiavettoni a favore di camera».
E poche settimane fa Messina Denaro, senza manette. «È civiltà» è stato detto.
«Giusto. E Carra invece sì. Un giornalista, messo alla gogna per uno show, a mio avviso per far sì che si capisse chi comandava, chi aveva il potere in quel momento. Era il simbolo della politica vinta dal pool. Ed era uno che non poteva dire niente, se non inventandoselo. Accusato da qualcuno che al momento dell'accusa è stato liberato. Trattato come una bestia».
Ne parlava?
«Tranquillamente, sì, si era tolto qualche sassolino ma non era capace di rancori. Una consolazione ora è che sia morto dopo aver visto, anche se solo on line, il suo ultimo libro, L'Ultima repubblica. Il cartaceo è uscito il giorno della morte. L'introduzione è un dialogo con Gherardo Colombo, del pool, che si era pentito di alcune cose. Sono diventati amici, una delle ultime telefonate che ha ricevuto era sua».
Era un episodio chiuso.
«Il 99% delle persone ha capito. E che il Capo dello Stato abbia usato quelle parole dice tutto. Era tornato a fare il giornalista, aveva intervistato Madre Teresa. L'ultima cosa che voglio è che resti inchiodato a quella foto».
Il giustizialismo cos'è?
«La parte peggiore del Paese. Spettacolarizzazione della giustizia. Saziare le bocche affamate di populismo. Dare in pasto qualcuno nell'arena di leoni per farsi amico il pubblico».
C'è ancora.
«Ha avuto seguito, pensi a Grillo, e al suo fedelissimo che si è distinto anche stavolta, non lo cito neanche, è stato l'unico».
Marco Travaglio?
«Non scendo su certi livelli. Non l'ha mai fatto mio padre e non lo farò nemmeno io».
Lei è militante del Pd.
«Sì, eletto in un Municipio a Roma. Nel partito in cui papà era arrivato da fondatore. Tutti sono altalenanti, il Pd si è riscoperto garantista».
Cosa chiede oggi Giorgio?
«Vorrei solo passasse l'idea del galantuomo che era. Buono, profondamente onesto. Sono fiero di aver avuto un papà così. Vorrei restasse il ricordo di mio padre com'era».
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