Anni a violentare l'italiano, a pretendere storpiature assurde della grammatica, a imporre asterischi. Anni ad aggredire i talk show con strampalate crociate neo femministe. Anni di battaglie inutili finite con l'inondare i social di obbrobriosi schwa. E poi? E poi si ritrovano ancora a piagnucolare e a montare una surreale polemica sulle «mogli di...». In questa strana estate di campagna elettorale ci saremmo aspettati un confronto serrato su ben altri temi. La crisi economica, per esempio. L'emergenza sicurezza. O ancora: l'immigrazione, il carovita, la riforma del fisco. E invece no. Sul tavolo abbiamo: sessismo, cultura maschilista e demolizione della donna. Un déjà-vu di cui avremmo fatto volentieri a meno.
A buttarla in caciara sono state Elisabetta Piccolotti e Michela Di Biase. I loro nomi potrebbero non dire granché al lettore poco avvezzo di politica. E quindi, per aiutare a inquadrarle, potremmo ricorrere all'uso di perifrasi. Magari dicendo che la prima, la Piccolotti, è la moglie di Nicola Fratoianni e la seconda, la Di Biase, è invece sposata con Dario Franceschini. Se pure i nomi dei mariti, alle orecchie dello stesso lettore disinteressato, dovessero dire poco, allora potremmo scrivere che uno è il segretario di Sinistra Italiana e l'altro è l'attuale ministro per i Beni culturali nonché esponente di spicco del Pd. I due non se ne vorrebbero. Le due, invece, sentitesi appellare sui giornali Lady Fratoianni e Lady Franceschini, se la sono presa. E non poco.
«Sono sedici anni che rappresento il Partito democratico nelle istituzioni - ha sbottato la Di Biase - Sedici anni di incontri, dibattiti, militanza, gioia, condivisione di obiettivi comuni. Ora, descrivermi come la moglie di... è in primo luogo ingiusto e, cosa molto più grave, è frutto di una cultura maschilista che vuole raccontare le donne non attraverso il loro lavoro ma attraverso l'uomo che hanno accanto». La Piccolotti non è stata da meno e, infuriata, ha puntato il dito contro il Sistema. «Un sistema maschilista e sessista - ha detto - fondato sulla demolizione del valore e della storia delle donne e sulla loro riduzione ad orpello degli uomini».
Certo, nei giorni scorsi, alcune malelingue hanno spettegolato sulle due dicendo che erano state garantite a entrambe candidature blindate in virtù proprio della fede che portano all'anulare. E questo le ha inorridite ancora di più. «A credere a quello che scrivono certi campioni destrorsi, renziani e pentastellati - ha tuonato la Piccolotti - si può finire, a volte inconsapevolmente, a fare la parte degli utili idioti del sistema mediatico e di potere di questo Paese». Tuttavia, anziché zittire quelle stesse linguacce mettendosi in gioco con una candidatura in un collegio dove è necessario andare a raccattare voti sul territorio, le due Lady hanno preferito inforcare la solita, sbiadita denuncia di sessismo. E Repubblica, dietro di loro, a montare il caso urlando al «maschilismo».
Ora (e non se la prendano le femministe battagliere) se si vuole davvero affrontare i problemi che affliggono le donne (e non in politica ma nella vita reale), alla Piccolotti e alla Di Biase bisognerebbe suggerire di battersi per qualcosa di più concreto.
Chessò: prolungare i mesi di maternità pagata (cinque non coprono nemmeno il periodo di allattamento esclusivo consigliato dall'Oms), incentivare il reinserimento nel mondo del lavoro per le neo mamme o aumentare le detrazioni legate alle spese per crescere i figli. La parità di genere si raggiunge attraverso questo tipo di riforme. E non certo imponendo schwa e asterischi o, peggio ancora, lagnandosi per qualche giornale che parla di loro come «mogli di...».
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