C'è la verità giudiziaria. Piccola piccola e talvolta deludente. E poi, per citare il sempre attualissimo Pier Paolo Pasolini, ci sono le certezze morali. Quelle non possono essere messe in discussione dal verdetto di Palermo che ha restituito l'onore a tre ufficiali dei carabinieri. Nicola Morra riprende un discorso fluviale, già iniziato subito dopo la sentenza su Facebook, e rilancia la ricerca della Verità, quella che non può accomodarsi dentro un provvedimento della magistratura ma può orientare le coscienze e definire l'identità di un Paese. Il Presidente della Commissione Antimafia dunque ributta la palla nel pozzo dei presunti misteri italiani e pazienza se per una volta la magistratura l'ha asciugato. «Il potere - spiega Morra - tende a imporre la sua narrazione, il suo story telling, per ammansire, placare, sedare e farsi accettare».
Forse il politico 5 Stelle, cui Davigo (che smentisce) avrebbe mostrato sulle scale i verbali dell'avvocato Amara, allude anche al verdetto di Palermo? «Compito del politico democratico, del rompi scatole, del grillo parlante, è far emergere verità se si vuole fare giustizia, sebbene in questo modo si vada controcorrente, correndo il rischio dell'isolamento, dello screditamento continuo, del fango».
Per la verità il fango è quello che ha ricoperto gli imputati ora assolti, dopo un'interminabile gogna di anni e anni. Ma la riflessione è tutta su un altro versante: la distanza che c'è fra quello che emerge in un'aula di corte d'assise e quanto si nasconde dietro le quinte. Morra, dopo aver saccheggiato mezzo Pantheon della cultura occidentale, da Tucidide a Socrate, si concentra, nientemeno, su Al Capone: «Se si studia la sua storia processuale, si scopre che la sua carriera criminale si concluse solo il 17 ottobre 1931 quando la giuria popolare giudicò Capone colpevole non di omicidi, di stragi, di gravi fatti di sangue, ma solo di una parte delle imputazioni contestategli per evasione fiscale». Insomma, il curriculum del gangster era altra cosa, la magistratura arrivò a sfregiarne l'immagine, anche se la condanna era poca cosa rispetto alla carriera del boss.
Ecco, una parte del Palazzo, quella cresciuta a pane e complotti, dopo aver inneggiato alla decapitazione per via giudiziaria di pezzi interi della classe dirigente, si accorge ora che la vicenda è più complessa e profonda e non può essere misurata e pesata col metro del codice penale.
Bisogna intendersi sulle parole: la Trattativa, che poi andrebbe declinata al plurale le Trattative, non fu l'oscura abdicazione di una parte delle istituzioni, ma una scia di situazioni e contatti ai confini fra Stato e anti-Stato in anni difficilissimi, e il primo errore che si può fare è leggerla con un pregiudizio manicheo: i buoni che stanno con i cattivi. La Trattativa, nel senso spiegato, probabilmente ci fu ma non andò come ci hanno fatto credere. Lo Stato non si piegò.
Restano in ogni caso le sofferenze e le umiliazioni patite da chi per troppo tempo è stato additato come il nemico al servizio dei boss. Così dopo l'assoluzione, il Riformista propone di nominare il generale Mario Mori senatore a vita. E il leader della Lega Matteo Salvini, seguito da Luca Squeri di Fi, si dice d'accordo: «Appoggio l'iniziativa.
Tributiamo la dovuta riconoscenza al generale e all'Arma».Matteo Renzi invece si rivolge al suo vecchio partito: «Invito il Pd a spendere parole chiare sul garantismo, come Giorgio Napolitano e non Giuseppe Conte ha insegnato a fare». Napolitano, pure lui lambito da questo processo.
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