Il proiettile ritrovato nell'orto di Pietro Pacciani non fu mai incamerato nella Beretta calibro 22 usata dal mostro di Firenze per uccidere 16 volte. Lo rivela una perizia del Ris che il Giornale ha avuto modo di visionare, depositata negli atti cui i parenti delle vittime hanno finalmente avuto modo di accedere. Di più. Non solo la scalfitura sul proiettile risulta «incompatibile» con quella pistola, ma potrebbe essere stata generata da «un utensile non meglio specificato, estraneo all'estrattore di un arma da fuoco». Arriva così la più importante delle conferme alla perizia di Paride Minervini che già ipotizzò nel 2019 come il proiettile, unica vera prova contro il contadino di Mercatale, fosse stato artefatto, ovvero, costruito in laboratorio. Il pm Luca Turco ha chiesto l'archiviazione del fascicolo, essendo ormai passato troppo tempo per poter accertare le responsabilità penali di quanto successo. Piccolo paradosso: il reato di depistaggio ha tempi di prescrizione aumentati, decisione dell'ex premier Matteo Renzi su cui indaga lo stesso Turco.
Resta il fondato dubbio che la più lunga inchiesta giudiziaria nella storia italiana sia stata viziata da un immane depistaggio, che portò in cella una lunga serie di innocenti. Prima Pacciani, poi i suoi compagni di merende Mario Vanni e Giancarlo Lotti con le sue deliranti confessioni. Infine, a cascata, le inchieste satelliti di Perugia sui mandanti e sul medico Francesco Narducci, terminate con un nulla di fatto. E a dirla tutta sarebbe fondamentale accertare chi mise in atto il depistaggio, non solo perché tre duplici delitti sono rimasti irrisolti, ma perché è ora verosimile che nessuna delle coppiette uccise dal 1968 al 1985 abbia ottenuto giustizia. Il documentarista Paolo Cochi, autore di un monumentale libro sulla vicenda e consulente dei parenti di alcune delle vittime, è convinto che all'interno delle carte sul procedimento Pacciani possa nascondersi il nome del vero serial killer. Come ha dato conto il Giornale lo scorso dicembre, tre sono gli elementi di particolare interesse: il Dna rimasto su tre lettere inviate ad altrettanti magistrati nel 1985, un uomo castano-rossiccio di un metro e ottanta visto da alcuni testimoni prima degli omicidi di Claudio Stefanacci e Pia Rontini del 1984. Ma soprattutto un dossier dei carabinieri su un furto di cinque Beretta calibro 22 in un'armeria nel 1965. La pistola mai ritrovata delle cinque portava ad un uomo che avrebbe lavorato in ambienti giudiziari nonostante denunce per reati contro la libertà sessuale, truffa e resistenza. Per i carabinieri poteva essere l'assassino. Ma la Squadra antimostro di Ruggero Perugini, quella che trovò il proiettile nell'orto di Pacciani, non lo mise inspiegabilmente mai tra i sospetti. Cochi aveva avuto accesso a quel dossier come consulente di Rosanna De Nuccio, accesso poi sorprendentemente revocato dalla procura e ora concesso dal gip Silvia Romeo, nonostante il parere contrario di Turco e poco dopo che le parti civili avevano chiesto l'avocazione dell'inchiesta. Ieri il gip Angela Fantechi ha dato il via libera anche agli atti dell'ultima inchiesta, quella sull'ex legionario Giampiero Vigilanti. Dice Cochi: «Il provvedimento del gip Romeo ribadisce il diritto prevalente dei familiari ad accedere agli atti ed a svolgere indagini difensive, rispetto ad una riservatezza sulle indagini richiamata dal pm, che si opponeva ostinatamente da anni. Parliamo di atti di processi del 1994 con sentenza passata in giudicato. Ora vedremo come gli avvocati si muoveranno materialmente sull'acquisizione.
Dopodiché potrò fare i riscontri necessari e poter dare una valutazione sul merito degli atti fino ad ora sconosciuti». La verità sul mistero sul vero Mostro si avvicina, sempre che la Procura di Firenze non si arrenda.
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