Lo hanno lasciato morire lì, Marcello, lungo la corsia affollata del Pronto soccorso dell'ospedale San Camillo di Roma. Se ne è andato, Marcello, in mezzo alla caciara, tra gli altri malati e i tossicodipendenti e gli sguardi indiscreti e le urla e l'andirivieni degli infermieri. Ha chiuso gli occhi, Marcello, in un postaccio che gli ha rubato la privacy e la dignità. A raccontare le ultime ore del padre è stato il giornalista di Askanews, Patrizio Cairoli, che ha scritto una lettera (leggi qui) al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, per denunciare quanto accaduto.
"Signora ministra, sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte - scrive Patrizio Cairoli - metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l'inizio della radioterapia, l'altro ad attendere miglioramenti che non sono mai arrivati". Nonostante la malattia, i medici avevano prospettato a Marcello e ai suoi cari "anni di vita da trascorrere in modo dignitoso". È stato sottoposto a radioterapia palliativa, ma di palliativo non aveva che il nome. "Mio padre aveva sempre più dolori alle ossa - racconta ancora Patrizio Cairoli - alla fine, non riusciva più a camminare e anche le azioni più semplici, come alzarsi dal letto o scendere dalla macchina, erano diventate un calvario, nella totale indifferenza di medici che, oltre ad alzare le spalle e a chiedere di avere pazienza, non sapevano dire o fare altro, se non aumentare la dose di tachipirina".
A Marcello avevano detto che, dopo qualche giorno, avrebbe visto i benefici della terapia. Poi, di fronte ai dolori sempre più forti, hanno chiesto di aspettare qualche mese in più. "Nessuno ci ha aiutati a comprendere - scrive Patrizio Cairoli alla Lorenzin - nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare: rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre". Quando l'ha fatto, era ormai troppo tardi: il giorno dopo il padre è finito in ospedale, al pronto soccorso del San Camillo (che non è l'ospedale dove era seguito), dove finalmente gli è stata somministrata la morfina. Qui, la situazione si è aggravata velocemente. Marcello è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi.
"Accanto aveva anziani abbandonati - racconta ancora Patrizio Cairoli - persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare". Il peggio, poi, si verificava nell'orario delle visite. La sala, come descrive il figlio nella lettera alla Lorenzin, era "sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l'occasione per gettare lo sguardo su mio padre". "Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato - continua Patrizio Cairoli - ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l'altro". Invece hanno dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più. Perché, hanno risposto gli infermieri, gli altri "servono per garantire la privacy durante le visite".
"Una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto - commenta amaramente Patrizio Cairoli - ci hanno detto che eravamo persino fortunati". Così, si sono dovuti ingegnare: hanno preso un maglioncino e, con lo scotch, lo hanno tenuto sospeso tra il muro e il paravento. Il resto della visuale lo hanno coperto con i propri corpi, formando una sorta di barriera.
"Sarebbe dovuto morire a casa, soffrendo il meno possibile - conclude Patrizio Cairoli - deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c'erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a roma, Capitale d'Italia".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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