I lettori mi perdoneranno se - anziché partecipare al banchetto delle ipotesi su chi banchetterà meglio con la pioggia di miliardi in arrivo dall'Europa cercherò di denunciare un delitto più morale che linguistico che consiste nell'espressione «Ci sta». Con la variante «Ci sta tutto».
Non si tratta soltanto di un ulteriore degrado della lingua italiana come la orrenda convenzione secondo cui «ci vediamo settimana prossima» anziché «la» settimana prossima ma di una losca intesa tra malfattori. Qualche giorno fa uno dei conduttori delle tele analisi da cui si misura il livello del politically correct (cioè il tasso di banalità ideologica) sosteneva che se un partito di destra appoggia il governo nel prendere importanti decisioni, «ci sta tutto». E «ci sta» anche che la destra sovranista non ci stia, cosa che in fondo «ci sta tutta».
Starci o non starci sostituisce l'esistenziale amletico quesito fra l'essere e il non essere. È un vizio cresciuto nel tempo pentastellare perché suona come un richiamo a un tacito patto secondo cui siamo già d'accordo che nessuno creda in quel che dice, e dunque non «ci sta tutto» anche perché in fondo (suvvia!) siamo anche gente di mondo.
È il momento in cui ogni espressione è già prevista e «ci sta». Sarebbe un gran passo avanti se almeno gli esponenti liberali lasciassero agli altri il privilegio delle parole prefabbricate, rifiutando di finire nel calderone in cui ci sta tutto, dove uno vale uno, anzi zero.
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