Gran Bretagna, ancora una volta nel mirino dei terroristi. Perché? Ci aiuta a capirlo il professor Vittorio Emanuele Parsi, politologo, docente di relazioni internazionali alla Cattolica di Milano.
«Perché è un Paese che è rimasto sempre in prima fila nella lotta contro il terrorismo in Irak e in Siria. Da sempre allineato in questa scelta con gli Stati Uniti, da sempre fra i protagonisti delle scelte politiche occidentali in Medio Oriente e con un lungo passato coloniale in quelle regioni».
È un Paese in qualche modo anche penalizzato dalla forte presenza musulmana?
«Un elemento è la presenza, ampiamente diffusa nel Paese, dei musulmani di seconda e terza generazione e noi sappiamo che la più parte del reclutamento dell'Isis nelle nostre società avviene pescando proprio tra le seconde e terze generazioni di fedeli. Quindi se il bacino di reclutamento è più largo è molto probabile che gli episodi di violenza possano aumentare e diffondersi in quei Paesi dove questa possibilità lascia maggiori spazi di manovra e di scelta. Secondo elemento da considerare è che in Gran Bretagna, come in tutte le società multietniche, diventa complesso gestire queste situazioni, perché è in simili contesti che più facilmente matura e si diffonde la cultura della rabbia e della rivalsa che è la matrice comune di coloro che poi scelgono la lotta armata».
Come dire, nonostante la guardia alta, le falle in Gran Bretagna restano...
«La sicurezza assoluta non è mai perseguibile. La lotta al terrorismo ha tante facce e una di queste sicuramente è l'integrazione che è utile e sarà utile, sul lungo periodo per ridurre il numero dei possibili proseliti. Ma per l'immediato i parziali rimedi per arginare il fenomeno sono altri: il presidio del territorio, per esempio, per ridurre sempre più lo spazio di tempo tra la manifestazione dell'azione ostile e la sua repressione. A Londra in questo caso lo spazio di intervento è stato molto breve ma dobbiamo considerare che anche un'attenzione diffusa non ci consente, se non in casi fortunati, di prevenire l'azione terroristica. Occorrerebbe lavorare maggiormente sull'infiltrazione nelle comunità islamiche ma su questo fronte siamo ben lontani da quanto si auspicava».
Quali scenari si schiudono alla luce di questa recrudescenza del terrorismo?
«La situazione resta decisamente preoccupante perché la rabbia, la logica del tanto peggio tanto meglio, nasce proprio in quei Paesi da dove i terroristi provengono, Paesi emarginanti e liberticidi che riverberano poi su noi, sull'Occidente le spore della cultura di questa rabbia. Basti pensare che in Indonesia e Malesia il terrorismo islamista fa più fatica a reclutare adepti perché quei Paesi, nonostante le loro difficoltà politiche, sono infinitamente meglio di Pakistan, l'Afghanistan, etc».
Anche l'Italia è a rischio di un attentato?
«Nessun Paese può dirsi lontano dal mirino ma è fuor di dubbio che siamo un target meno appetibile di Francia, Inghilterra o Germania e quindi un attentato in Italia avrebbe una cassa di risonanza inferiore.
Inoltre siamo meno esposti nella lotta alle organizzazioni terroristiche in Medio Oriente e questo ci pone in una posizione più defilata e non abbiamo seconde e terze generazioni di origine musulmana numerose. Poi c'è il paradosso: da noi chiunque arriva trova il ramo cui aggrapparsi. Siamo tutti bene integrati in una società che funziona male. Siamo tutti italiani anche se, per assurdo, nessuno si sente italiano».
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